Eccomi a parlare per la prima volta diffusamente della scrittrice Maria Rizzi, mia ottima amica e autrice del noir ANIME GRAFFIATE (Tipografia Fadia Soc. coop.2012, Collana Corpo Dodici Yellow tracks; marzo 2012). Il romanzo di Maria -la cui generosa presenza sul mio blog è sotto gli occhi di tutti- è stato da me letto con attenzione. La vicenda ruota attorno alla figura dell’ispettore di polizia Stefano Segni, occupato a combattere un lurido commercio di minorenni ucraine piegate con la violenza e la droga ai turpi piaceri della società-bene della città (non precisata) in cui si svolgono gli eventi. Stefano Segni, peraltro, separato da Giulia, si trova nel contempo a dover affrontare il difficile rapporto con la figlia quindicenne Valentina, traviata dal suo “grande amore”, ossia il narcotrafficante Dario, ben più grande di lei e senza scrupoli. Ora occorre subito dire che Maria Rizzi ci offre una narrazione efficace e realistica di squallidi ambienti ma anche di umani contesti in cui prevalgono ancora valori-guida come spirito di coesione, solidarietà (vedi il Commissariato dove l’ispettore si trova ad operare, circondato dalla stima profonda dei suoi colleghi). Rarissimi, gli “abbandoni” della scrittrice al patetico, al consolatorio lirismo del paesaggio. No, il paesaggio cui la Rizzi è interessata è quello umano, interiore dei personaggi della sua storia, dove campeggia a mio avviso soprattutto la figura di Laura, la psicologa dai capelli corvini che si occupa del recupero delle minorenni traumatizzate oltre ogni limite dall’accaduto; senza dimenticare Valentina, la figlia che sbatte in faccia ai genitori con feroce sarcasmo la propria ribellione. La vicenda raccontata da Maria Rizzi appare insomma ben calata nella realtà globalizzata dei nostri giorni, in una non meglio precisata città italiana; e la scrittrice mostra di sapersi nascondere bene tra le pieghe degli avvenimenti narrati; facendo con discrezione emergere, a tempo debito, la sua ferma fiducia nei valori sopra accennati che dovrebbero orientare la comunità degli umani: ossia, senso di responsabilità, di solidarietà, di rifiuto delle facili chimere che attraggono distruttivamente i giovani non orientati a dovere. Altro rilievo positivo riguardante la Rizzi, è quello che attiene alla pulizia della sua prosa, che, ancorata all’indicativo presente, schivando le insidie del descrittivismo, riesce a rendere tangibile il farsi degli avvenimenti agli occhi del lettore. Eppure…mi perdonerà Maria Rizzi: questa stessa sua prosa impeccabile e appropriata, alla lunga mi ha lasciato come in apnea; in quanto monotematica dal punto di vista sintattico; vale a dire troppo lineare e paratattica. Insomma ho avvertito la mancanza, nel romanzo, di qualche (perché no?) complesso, finanche tortuoso periodo di tipo ipotattico, tale da assicurare alla narrazione maggior ricchezza tonale. E se questo può valere sul piano diciamo così formale, ecco che, ad un livello più profondo, verrebbe forse a coincidere con le zone d’ombra dei personaggi; a parer mio non debitamente intercettate da una prosa, ripeto, troppo lineare e poco digressiva; e, quindi, fatalmente non prospettica…rassicurante, in fondo, nel separare con nettezza i buoni dai cattivi, quasi in chiave manichea. Nell’affermare tutto ciò, esprimo anche la mia consapevolezza di non essere un lettore di opere noir (dunque, il mio stato d’apnea di cui ho sopra parlato potrebbe coincidere con il fiato sospeso che tali narrazioni debbono poter procurare a chi legge). Per tacere poi del fatto che il romanzo della mia ottima amica risulta comunque teso come corda di violino, nel prendere di petto non la fiaba, piuttosto la dura realtà quotidiana sotto il segno dell’hobbesiano homo homini lupus. E, per quest’ultimo aspetto, sia quindi lode a Maria, capace di nervi saldi nel rappresentare lucidamente e con sapienza emotiva gli aspetti non edificanti della vita! Con tali mie riflessioni, al dunque, ho inteso in piena onestà intellettuale evidenziare quanto non mi ha convinto, leggendo il romanzo di Maria: fermo restando il mio grande apprezzamento per il risentimento morale dell’autrice nel raffigurare quei pozzi neri dell’esistenza che maggiormente invogliano a contemplare la limpidezza del cielo.

Andrea Mariotti, aprile 2012.

P.S. Maria Rizzi è raggiungibile sulla Rete all’indirizzo: la lunaeildragoautori.weebly.com/maria-rizzi.html

——————————–

Su A FURIA DI SFOGLIARE… di Roberto De Luca

E’ un narratore autentico, Roberto De Luca? a questa domanda secca, occorre a mio avviso rispondere
affermativamente. Si avverte, infatti, nel leggere questo suo volume di racconti intitolato A furia di sfogliare…(Roma, Universitalia, 2012) il “respiro” di chi possiede per istinto l’attitudine a narrare. Certo, sussistono dislivelli di stile fra i racconti inclusi nel libro, finanche all’interno di taluni di essi; ma, quanto appena rilevato, risulta tutto sommato secondario rispetto alla suddetta attitudine: sulla quale converrà focalizzare la nostra attenzione. Per esprimerci con il linguaggio del corpo, De Luca mostra, in sintesi, nel suo libro, la robusta capacità polmonare del narratore verace: “respirando”, la sua prosa, in modo lento e regolare; e ciò andrà inteso in senso più che positivo (a prescindere dal piano letterario) dal punto di vista psico- antropologico, considerando la forsennata e nevrotica agitazione del nostro tempo. Ma non basta. Roberto De Luca dispone pure di uno sguardo attento e meticoloso, che gli permette di scrutare i dettagli di cose e accadimenti (altra qualità intrinseca del prosatore, si dovrebbe osservare; in relazione alla cosiddetta elaborazione tematica di “cellule narrative” per proprio conto non significative, almeno in avvio di narrazione). Ora, stringendo il discorso, come procede De Luca innanzitutto nei suoi racconti? misurando lo spazio attorno all’io narrativo, volendo prendere in esame le battute iniziali del primo racconto del libro, dal titolo Notte: “…Colline ondulate sull’orizzonte destro, non molto alte, gialle e marroni, con rupi scavate sui fianchi. L’orizzonte sinistro è una lunga pianura ondulata, degradante verso il mare. Ho una Citroen GS bianca e sono solo. Dietro, nel cofano, ho un secchio di tinta bianca ancora da sbollare e un secchio vuoto dentro al quale ci sono dei pennelli, un rullo, una taglierina, dello scotch e un paio di bottiglie di isolante. Sopra al portabagagli ho una scala da imbianchino pesante e vecchia, molto vecchia. Ho pure un secchio di tempera smezzato: siamo alla fine di ottobre e vado a imbiancare la casa di mia zia…”. Ebbene, si dovrà riconoscere al nostro autore già a partire da qui -si noti intanto il suggestivo effetto chiaroscurale notte/ imbiancare– quella istintiva e direi felice demarcazione dello spazio che assicura concretezza al testo in questione; unita, tale demarcazione, a una sensibilità oggettuale che, di fatto, suggerisce uno scenario quasi da natura morta della vicenda narrata (laddove lo sguardo si posa nitidamente, in qualche modo raggelato, sulle cose). Talché, la riserva che si dovrebbe avanzare in merito a questo primo, interessante racconto, e cioè quella di un ritmo narrativo troppo lento, si rovescia ipso facto nel suo contrario, in senso più che positivo: volendo alludere, da parte nostra, al respiro sì lento, ma verosimile, umano della narrazione, affrancata (sempre servendoci del linguaggio del corpo) da quel “debito di ossigeno” che affligge oggi diversi romanzieri in erba incapaci di spingersi al di là della stesura di una pagina e mezzo, per ciascun capitolo del loro travaglio narrativo. Ancora una osservazione, circa il racconto in esame: gli oggetti concreti, del tutto prosaici in esso elencati quasi ritualmente, risultano, a parer mio, in chiave espressiva, i correlativi oggettivi della solitudine all’interno della quale si dibatte un io narrativo comunque non demoralizzato oltremisura e in cerca di libertà interiore; sicché, in conclusione, leggendo Notte, si riconoscono scatti positivi tutt’altro che astratti: di contro condivisibili e, soprattutto, non mellificati da un lirismo in questo caso del tutto fuori luogo. Ma veniamo adesso al racconto, intitolato Denti che, a mio avviso, risulta il più significativo del libro. Varrà anzitutto un suggerimento stilistico, per una sua possibile fruizione in profondità. Leggendo infatti tale racconto e tornando al titolo, ecco che non ho potuto non pensare, a proposito di quest’ultimo, a una felice sineddoche. Essa, strumento potente del linguaggio poetico, è una figura semantica con cui si realizza uno spostamento di significato da un termine a un altro. Si ha, esempio più evidente, nel caso della parte per il tutto (nella fattispecie, “denti” per “Alberto”, il protagonista della vicenda narrata; essendo però doveroso aggiungere: Alberto e il suo inconscio, che “parla” eccome, quanto e più di Alberto, nel racconto). Manca qui lo spazio per riferire nei dettagli l’odissea di Alberto, piuttosto malmesso con la propria dentatura; al punto di doversi sottoporre a lunghe e costose cure presso lo studio del dottor Santini. Fatto sta che una domenica egli si reca “a visitare i ruderi di un castello che si trovavano in aperta campagna”. Ora, in tale simbolico e direi preveggente scenario, ecco accadergli qualcosa di estremamente spiacevole: “ forse quella mattina non aveva messo bene la colla, ma fu così che quello starnuto fece uscire dalla sede la protesi facendola rotolare giù per il pendìo, finché non andò a infilarsi in un cespuglio”. La vera e propria materializzazione di un incubo-dovremmo dire- viene qui magistralmente raccontata dalla prosa distaccata, quasi impassibile (e, proprio per questo, suggestivamente onirica) di Roberto De Luca; tant’è che, più avanti, Alberto “Quella notte sognò Santini che pettinava delle bambole mentre lo guardava con un sorriso sarcastico. Gli sembrava quasi minaccioso e la sua figura, che stava come sospesa, poco prima di un alto baratro, esprimeva tutta l’insicurezza sua, di Alberto, causatagli da questa maledetta faccenda”. Eccoci giunti, a mio avviso, al punto più qualificante del libro di De Luca; nel senso che proprio qui il narratore, in modo asciutto e toccante, ci parla delle nostre insicurezze più profonde, inconfessabili; di cui i denti risultano simbolo eloquente. Da sempre essi, a livello etno-antropologico, sono infatti espressione della nostra vitalità (si pensi ai popoli primitivi –globalizzazione a parte!- la cui dentatura sana è attribuita non soltanto al loro modo naturale di mangiare, ma anche all’ignoranza di quel freudiano “disagio della civiltà” che invece ci tocca da vicino, in termini di aggressività inibita alla fonte e quindi nevroticamente rimossa). Non a caso l’interpretazione psicoanalitica dei sogni decodifica la caduta dei denti come paura della perdita di energia e potenza; e, tornando al racconto di Roberto De Luca, dovremo qui registrare un avvilimento ancora più cocente vissuto dal povero Alberto, che smarrisce, come abbiamo visto, addirittura la sua protesi!
Naturalmente altri racconti del libro di De Luca meriterebbero più di un cenno, per gli spunti narrativi di cui il nostro autore si mostra fertile, e penso soprattutto all’incipit della novella Uno scrittore: “Paolo, ad esempio, era uno scrittore in crisi di ispirazione. Passava ore e ore seduto al bar della piazza a fare prr, prr, prr con la bocca sbavante e spesso era scontroso con gli altri”. Ma come dimenticare l’atmosfera pungente e surreale del racconto Pensiero spiritoso…? in esso, “la polvere fina e bianchissima” che va a posarsi sulla testa di chi narra, per colpa di “una donna anziana che scuoteva di sotto un sacco ormai vuoto”, mi ha fatto ripensare alle novelle “ stregate” del grande Dino Buzzati; giacché, detta polvere, non è affare da nulla, rimanendo tenacemente appiccicata ai capelli del protagonista dopo “un tenebroso dormiveglia”, e quindi all’indomani dell’incontro inquietante con l’anziana donna. Altrove, come nel racconto Cambiare, verso la fine del libro, a risaltare è quella pacatezza di respiro narrativo del quale abbiamo già fatto cenno all’inizio del presente scritto e che qui si condensa in una profonda presa di coscienza da parte del protagonista in terza persona: “…Pensa comunque a quel lieve senso di tragedia che c’è dietro a ogni cosa, anche quando tutto sembra procedere per il meglio. Si accoccola sulla sedia, avverte ancora le carezze del vento che passa nel suo giardino e pensa al passare della vita. Sente la notte che dilaga intorno, trasportando il silenzio in ogni dove, mentre i pini, che un tempo erano piccoli, ora con le punte sfiorano quasi il cielo”.
In base a quanto abbiamo detto finora, ecco che una valutazione complessiva di A furia di sfogliare… non potrà che essere positiva, da parte nostra: a fronte di una voce narrativa -quella di Roberto De Luca- tutt’altro che artefatta; anzi, in una parola sola, genuina, tale da suscitare profondo interesse alla lettura.

Andrea Mariotti, marzo 2013

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.