Riguardo a quest’ultima silloge di Anna Maria Curci, MACABOR Editore 2024, con prefazione di Silvano Trevisani, non posso nascondere il mio convinto apprezzamento di essa per le ragioni che di seguito dirò. Tale silloge è apparsa in effetti ai miei occhi raffinata, per le sue poesie brevi ma dense, tutte caratterizzate da una levità frutto direi del sentimento metrico dell’autrice; autrice però capace nel contempo di rigenerare il canone della nostra grande tradizione in virtù di un acuto senso della modernità, nei termini cioè di complessi ma puntuali correlativi oggettivi: il che significa, a conti fatti, pregnanza semantica del dettato poetico, senso profondo del disagio esistenziale espresso dai versi, coscienza non retorica dei limiti stessi della poesia. E proprio quest’ultime parole mi spingono a osservare più da vicino in chiave metrico-stilistica almeno due delle poesie iniziali della raccolta, iniziando da “Cercano casa le parole in viaggio”, a parer mio autentica gemma del libro:
Cercano casa le parole in viaggio
o solo fiato prima di avanzare
verso un raggio protendono le mani
intirizzite sperano fiducia
non sfuggirà infatti a chi legge l’elegantissima rima al mezzo viaggio–raggio, rima assonanzata peraltro con fiato nel secondo verso; laddove quel raggio risulta all’occhio attento quanto mai polisemico: atto a evocare non soltanto la luce ma, nella sua evidente funzione di sineddoche, in grado anche di richiamare il segmento di quel cerchio che è poi in ultima analisi il vero approdo della poesia, ossia la circolarità capace di sintetizzare in poche parole quanto in prosa richiederebbe ben altro sviluppo. Ma non basta: protendono e sperano (penultimo e ultimo verso) parole sdrucciole sotto accento di sesta, esprimono quasi a livello onomatopeico il travaglio del far poesia, nello sforzo di conciliare coscienza letteraria e spinta dell’ispirazione. Dunque una vera e propria dichiarazione di poetica in soli quattro plastici, allusivi e canonici endecasillabi sorretti da una grazia non estetizzante, bensì autentica e asciutta.
Tanto altro ci sarebbe naturalmente da aggiungere sulla silloge in oggetto, così che mi avvicinerò brevemente a una seconda poesia che mi è piaciuta molto, prima di concludere questa mia breve nota di lettura, e cioè Se ancora ritagliamo un cantuccio:
Se ancora ritagliamo un cantuccio
e ne nutriamo gambo esile e fiore
aperto lo stanzino dell’affanno
usciamo piede al passo e faccia al tempo
proviamo un controcanto allo sgomento
ebbene, come non notare, qui, a parte la notevole giuntura stanzino dell’affanno, l’efficacissima assonanza tempo–sgomento in chiusa che io ho letto davvero quale controcanto alla caproniana poetica del “poco”, riferendomi ad una acutissima analisi di Italo Calvino sul grande Livornese? ma anche nei versi appena riportati di Anna Maria Curci c’è in effetti un endecasillabo memorabile: usciamo piede al passo e faccia al tempo, vero e proprio “arioso” in senso musicale, in grado di mitigare in chiave non consolatoria il nostro sgomento; mettendo in ultimo sul tavolo il coraggio di esporsi, riconoscendo la nostra fame d’ossigeno, la spinta a uscir fuori dalla nostra tana per respirare aria discretamente pura e tornare ad incontrarci; e tutto ciò grazie a uno stile severo, asciutto, carico di esperienza letteraria, qual è quello di Anna Maria Curci.
Andrea Mariotti