SUI “BUDDENBROOK” DI THOMAS MANN

Nel mio “otium” agostano da sempre affronto impegnative letture, e quest’anno è stata la volta dei BUDDENBROOK di Thomas Mann (Einaudi, traduzione di Anita Rho); romanzo imponente ultimato dal grande scrittore a venticinque anni e pubblicato l’anno seguente, e cioè nel 1901. Ebbene, fin dalle prime pagine, la mia sensazione è stata quella di un narratore uscito come si suol dire adulto al pari di Minerva dalla testa di Giove (la stessa sensazione provata tanti anni addietro al cospetto degli OSSI montaliani). Infatti, a lettura ultimata non più tardi di ieri del romanzo (dopo il solito senso di vuoto che ci assale come lettori beatamente vissuti all’interno di grandi dimore narrative), non posso che parlare di un testo perfetto, peraltro fin dall’inizio il più diffuso e di maggior successo di Mann. La ragione di ciò l’ho soprattutto trovata, credo, in quanto puntualizzato nell’introduzione di Cesare Cases acclusa alla succitata edizione; nel senso di una felicissima diluizione del sostrato ideologico del romanzo negli accadimenti (interiori ed esteriori) narrati dallo scrittore. La storia della “decadenza di una famiglia” (sottotitolo del libro), appartenente all’aristocrazia mercantile di Lubecca, dal 1835 al 1875, vale a dire per tre generazioni, appare in effetti al lettore di una compattezza unica, “ottocentesca”; compattezza all’interno della quale circola, però, il processo tutto moderno dell’identificazione del punto di vista del personaggio con quello dell’autore; nel caso dei BUDDENBROOK ripartito tra le figure di Antoine, del fratello Thomas e del figlio di quest’ultimo Hanno: Hanno in cui non è difficile riconoscere in controluce il Nostro. Ma, proprio tale ripartizione, non fa che potenziare a conti fatti la suddetta compattezza, nei termini di una realistica oggettività di cadenza impressionante. Tutto è necessario nella narrazione, tutto accade così come deve accadere, con i voli della fantasia fagocitati dall’Ananke alto-borghese; sorda a tutto ciò che non rientri nel linguaggio del denaro, del decoro, della dissimulazione: insomma di un ordine repressivo minacciato dalla bellezza che distrugge “il nostro coraggio e la nostra capacità di vivere nella vita comune”. A ben guardare si sta parlando del tema di fondo dell’opera complessiva di Thomas Mann, ossia il contrasto fra Vita e Spirito; soltanto che, all’altezza di questo primo suo giovanile ma perfetto romanzo, nessuna saggistica o filosofica digressione ostacola un fiume narrativo indimenticabile (e qui mi sono ovviamente rammentato della mia rilettura di dicembre scorso di DELITTO E CASTIGO, romanzo di una felicità per l’ appunto narrativa non più ottenuta dal pur gigantesco autore dei KARAMAZOV). La figura del giovane Hanno che, nelle pagine finali del romanzo in oggetto, muore adolescente e del tutto refrattario a prendere in mano le redini della “ditta” in quanto gracile e malato, “colpevolmente” posseduto dal demone della musica, è una di quelle che il lettore non può dimenticare. Ma Hanno, fin dalla nascita gravemente sofferente per suoi denti malati, è figlio del senatore Thomas, personaggio centralissimo nel romanzo: Thomas che, a un certo punto della propria vita, si sente morire dentro; senza più quella volontà capace di plasmare all’istante e invariabilmente una realtà fatta di lusso e di lucro, insomma di costante applicazione ai dettami dell’ananke mercantile. Thomas raddoppierà, per fuggire da sé stesso, quasi in modo ridicolo, la cura esteriore del proprio corpo e vestiario, ma morirà a faccia in giù nella neve dopo essersi recato dal dentista per un intervento non riuscito ad un dente dolentissimo. Ora è noto da sempre che i denti, a livello etno-antropologico, sono espressione della nostra vitalità, tant’è che l’interpretazione psicoanalitica dei sogni decodifica la caduta di essi come paura della perdita di energia e potenza…sicché, a parer mio, con questo efficacissimo correlativo oggettivo, il giovane e geniale autore dei BUDDENBROOK rende tutt’altro che astrattamente, di padre in figlio, da Thomas ad Hanno, il germe della decadenza all’interno di un altolocato casato di Lubecca. Thomas Mann pubblicava un anno dopo l’uscita della INTERPRETAZIONE DEI SOGNI di Sigmund Freud (1900) il suo primo e potentissimo romanzo; dedicandosi poi, negli anni seguenti, ad approfondite letture freudiane (la mia foto, in ultimo, l’ho tratta dall’ENCICLOPEDIA EUROPEA e rimanda al 1929, anno del conferimento del Premio Nobel al grande scrittore).

 

Andrea Mariotti

 

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