Da poco ho concluso il terzo viaggio poematico dopo quelli degli anni precedenti dedicati alla DIVINA COMMEDIA (2021) e all’ORLANDO FURIOSO (2022): riferendomi alla GERUSALEMME LIBERATA, nello spirito, mi verrebbe di dire, dei pittori Nazareni, autori degli affreschi ispirati a questi capolavori letterari (nelle tre sale al piano terra del Casino Giustiniani Massimo al Laterano, a Roma). La lettura integrale della LIBERATA (mai fatta da me in precedenza) si è rivelata naturalmente più ristretta in termini di tempo rispetto a quella del ben più esteso FURIOSO; e particolarmente appassionata, tanto da riuscire a procurarmi, due settimane fa, una splendida biografia sul Tasso di Fabio Pittorru, edita da Bompiani (1982) e raccomandata da studiosi della statura di Lanfranco Caretti e Nino Borsellino. Mi piacerà ora in questo scritto fare un rapidissimo accenno al sotterraneo dialogo in versi fra due grandi poeti quali Tasso e Leopardi, così come esso si è dischiuso dinanzi ai miei occhi di lettore “in progress” della LIBERATA; ricordando innanzitutto la stupenda e famosa lettera da Roma del Recanatese al fratello Carlo datata 20 febbraio 1823, dove viene raccontata la visita commossa di qualche giorno prima al “cenere del Tasso” nella chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo. Venendo ora ai CANTI, attraverso i due esempi che seguiranno, non si potrà non cogliere, credo, la profonda “memoria involontaria” dei versi della LIBERATA; poema -è stato detto- non più rinascimentale ma non ancora barocco e sorprendentemente protoromantico, ripensando ai grandi spiriti del Romanticismo che vi si sono immedesimati. Parliamo subito del sublime canto dodicesimo del poema tassesco, uno dei più famosi e amati: Clorinda è stata uccisa da Tancredi, di lei perdutamente innamorato ma del tutto all’oscuro dell’identità della sua antagonista nel lungo e feroce duello che si è consumato fra i due. Il gentile cavaliere cristiano prostrato dal dolore si abbandona a un lungo monologo interiore che tocca la sua acme nella stanza 77 del canto in oggetto: “Vivrò fra i miei tormenti e le mie cure,/ mie giuste furie, forsennato, errante;/ paventarò l’ombre solinghe e scure/ che ‘ l primo error mi recheranno inante,/ e del sol che scoprì le mie sventure,/ a schivo ed in orrore avrò il sembiante./ Temerò me medesmo; e da me stesso/ sempre fuggendo, avrò me sempre appresso”. Mancano le parole per esprimere al meglio la forza struggente e acutamente profetica di questo autoritratto dell’autore geniale e ancor giovane della LIBERATA; a palmare riscontro della gorgogliante spinta centrifuga e lirica atta a rendere “instabile” un poema volutamente epico ed elevato e per tanti aspetti esemplare nel suo realizzato e aristotelico intento unitario. Ma ecco che qui non ho potuto non pensare -parlo in veste di lettore, sul filo della sensibilità personale – al primo dirompente palesarsi dell’io lirico leopardiano, in una canzone iniziale e non ancora “libera” dei CANTI: “…Io son distrutto/ né schermo alcuno ho dal dolor/ che scuro/ m’è l’avvenire, e tutto quanto io scerno/ è tal che sogno e fola/fa parer la speranza” (AD ANGELO MAI, 1820, 34-38; con i versi appena citati che anticipano in questa canzone la lunga e commossa apostrofe rivolta proprio al Tasso, “O Torquato, o Torquato…”). La mia attenzione di lettore della GERUSALEMME LIBERATA è stata colpita anche e soprattutto dai seguenti versi del canto quindicesimo, ventesima stanza (laddove viene raccontato il fantastico viaggio di Carlo e Ubaldo attraverso l’Oceano sulla imbarcazione della Fortuna, per sottrarre l’eroe cristiano Rinaldo alla seduzione della maga Armida): “Giace l’alta Cartago: a pena i segni/ de l’alte sue ruine il lido serba./ Muoiono le città, muoiono i regni,/ copre i fasti e le pompe arena ed erba,/ e l’uom d’esser mortal par che si sdegni…”; ebbene come non ripensare in questo caso alla conclusione della penultima strofe della leopardiana GINESTRA (“Caggiono i regni intanto,/ passan genti e linguaggi: ella non vede:/ e l’uom d’eternità s’arroga il vanto”)? Per motivi di spazio ho inteso limitarmi nel presente scritto ai suddetti esempi in versi, prescindendo naturalmente dal celebre “Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare” che spicca nella sua bellezza all’interno delle “Operette morali” del Recanatese. Tornando alla GERUSALEMME LIBERATA, innumerevoli le vette artistiche del poema incontrate durante la lettura, a proposito delle quali non è certo questa la sede in cui darne conto; senza però tacere della particolare ed altissima ispirazione del Tasso ogni volta che il poeta fa scendere la notte con le sue “ali brune” a interrompere le ostilità fra cristiani e pagani; e anche qui, il pensiero non è potuto non riandare ai grandi notturni leopardiani. Proprio in conclusione, vorrei parlare ancora un momento della maga Armida sopra citata; così sicura di sé all’inizio nel seminare la discordia in campo cristiano grazie alla sua irresistibile bellezza, salvo poi innamorarsi perdutamente e con molto scorno di Rinaldo: “Il dolore di una donna innamorata non era mai stato cantato con altrettanta intensità da un poeta italiano prima del Tasso”, ci ricorda giustamente Ettore Bonora (”Vattene pur, crudel, con quella pace/ che lasci a me; vattene, iniquo, omai…”; LIBERATA, canto sedicesimo, stanza 59). Per dire del fascino enorme emanato nel poema da diverse figure del campo pagano, prospetticamente e dinamicamente rappresentate nel groviglio vitale delle loro contraddizioni.
Andrea Mariotti
Ho letto con vivo interesse, Andrea, il tuo “viaggio poematico” dedicato alla “Gerusalemme Liberata” di T.Tasso”, un’opera che apre -come afferma B.Maier- una strada che porta direttamente alla romantica e moderna letteratura dell’inquietudine e del tormento…dell’ansiosa esplorazione del mistero dell’uomo e del mondo, dal Leopardi al Pascoli, dal Montale al Pirandello e allo Svevo” (B.Maier “Tasso oltre i suoi tempi”).
Ti ringrazio per questo tuo commento, Fiorella, con un caro saluto.
Caro Andrea, un viaggio poematico appassionato e intensamente vissuto, nella Liberata dell’amatissimo Tasso, che ha con questa opera introdotto, credo, un nuovo modo di narrare fondato non soltanto sull’osservanza dell’unità aristotelica, ma su una continua attenzione e partecipazione a fatti e soprattutto ai personaggi e alle loro evoluzioni, cambiamenti, e profonde riflessioni intorno a “l’aspra tragedia de lo stato umano”, tanto per citare un verso della stanza 73 del ventesimo canto, dove emerge tutta l’umanità di Solimano.. Così come il disperato compianto di Tancredi per la morte dell’amata Clorinda, dove quel “sempre fuggendo” a me ha fatto pensare, con le dovute differenze e seguendo il filo della sensibilità personale da te giustamente sottolineata, a quel “sempre fuggendo di gente in gente” di foscoliana memoria.. questo per dire che la Poesia grande ci porta sempre da qualche altra parte, sia più avanti, sia più indietro, e dona una circolarità eterna che ci conforta e ci fa forse illudere di “vincer la rabbia de le stelle e ‘l fato”. Un abbraccio. Marzia
Cara Marzia, ti ringrazio per questo tuo denso e articolato commento relativo al mio scritto sul grande poema tassesco. Grande fra le altre cose proprio per la quantità e qualità di “memoria involontaria” che esso ha prodotto nei poeti d’alta statura di epoche successive, così che, giustamente, hai citato Foscolo. E che dire di Solimano? meno che mai è un ariostesco Rodomonte o Mandricardo, essendo anche lui un tagliatore di teste sì, ma capace di riflessioni profonde, dettate da una ben moderna, spiazzante coscienza del nulla. Un ricambiato abbraccio. Andrea