Mi è capitato di leggere questa mattina l’ultima delle “Cinque storie ferraresi” di Giorgio Bassani, e cioè “Una notte del ‘43”, cui Florestano Vancini si è poi ispirato per il suo notevolissimo film del 1960. Ma vado con ordine, facendo un passo indietro; nel senso che, durante la mia recente giornata ferrarese focalizzata soprattutto sulla visita alla Biblioteca Ariostea, ecco che un grande scrittore del nostro Novecento parlava intanto al mio animo di lettore: Giorgio Bassani, per l’appunto. Essere passato davanti alla chiesa di Santa Maria in Vado, diretto al Palazzo di Schifanoia, per dirne una; volendo tacere di Corso Martiri della Libertà, nel freddo e nella nebbia…come potevo pensare di non rifare i conti con l’autore dei “Finzi Contini” nonché dello stupendo romanzo breve “L’airone”? Ma di Bassani, me ne vergogno, non avevo ancor letto le “storie ferraresi” in premessa, ragion per cui quasi avidamente ho provveduto al riguardo nei giorni appena trascorsi. E qui mi preme citare alla lettera queste parole di Luca Serianni tratte dal “Sentimento della lingua” (“conversazione con Giuseppe Antonelli”, edizioni Il Mulino), laddove l’insigne studioso scomparso quest’estate, così si esprime sull’autore del vasto “Romanzo di Ferrara” (dopo aver sottolineato il valore della limpida prosa di Dino Buzzati, a proposito dei grandi scrittori italiani a noi vicini nel tempo e ineludibili per i giovani d’oggi): “Anche Bassani è perfetto: lessico, sintassi, costruzione narrativa oltre che respiro civile”. Ebbene, leggendo le “Cinque storie ferraresi”, come non riconoscersi totalmente nelle suddette parole? Per me fresco di contatto con esse, sono soprattutto le ultime due a rappresentare dei veri capolavori: “Gli ultimi anni di Clelia Trotti” e la succitata “Notte del ‘43”. Prima di parlare però di quest’ultima, almeno due parole su “Clelia Trotti”. La pagina d’apertura del racconto, in cui Bassani dipinge via della Certosa che porta al Cimitero Monumentale di Ferrara è meravigliosa, nel suo esprimere un’atmosfera impercettibilmente gioiosa, più addentro alla tetraggine che un luogo del genere dovrebbe ispirare. La vicenda è nota ai lettori del grande scrittore bolognese di nascita, che però ebbe a trascorrere come sappiamo bene l’infanzia e l’adolescenza proprio a Ferrara; risultando notevolissimo il ritratto della vecchia maestra socialista, Clelia Trotti, confinata dentro la casa della sorella nella città di Ferrara, alla vigilia della sciagurata discesa in guerra dell’Italia nel 1940 a fianco di Hitler. Clelia Trotti che confida al protagonista del racconto, Bruno Lattes, quel quid di retorica già scopertamente fascista da lei colto nel trionfante Bollettino della Vittoria di Armando Diaz (4 novembre 1918) in merito all’esercito austro-ungarico in rotta. Ma è in “Una notte del ‘43”, l’ultima delle “storie ferraresi”, che Giorgio Bassani riesce a fissare in modo veramente indimenticabile tragedia e farsa, con quel “respiro civile”- riconosciutogli giustamente da Luca Serianni- qui dispiegato appieno. Occorre davvero leggerlo o rileggerlo, il racconto in oggetto, per toccare con mano in profondità la fulminea piroetta a mezzo della quale tanti italiani misero una pietra sopra il proprio passato fascista, all’indomani della Liberazione; giacché proprio Ferrara, che alla Repubblica di Salò -prima fra tutte- aveva offerto tanti uomini, adesso voleva tornare a vivere, agli albori del dopoguerra; Ferrara il cui respiro intriso di pietas, in precedenza -nelle pagine stupende di Giorgio Bassani- aveva accompagnato le ore della tragedia; allorché undici antifascisti vennero fucilati all’alba del 15 novembre del ’43 davanti al Castello Estense dalle squadracce fasciste provenienti da Verona; per vendicare l’uccisione del Federale Ghisellini (data posticipata da Bassani nel suo racconto al 15 dicembre; con quei poveri corpi inanimati come stracci in stridente contrasto con il fulgore della neve al suolo e della luna piena). A questo primo eccidio della guerra civile in Italia dopo l’Armistizio dell’otto settembre 1943, sulla base del racconto di Bassani, è poi ispirato come sopra rammentato l’omonimo film di Vancini, con Enrico Maria Salerno perfetto nel ruolo dell’uomo malato alla finestra, il farmacista Pino Barillari, nelle ore della tragedia; senza dimenticare l’altrettanto perfetto e grande Gino Cervi nella parte del luciferino gerarca fascista al comando delle squadracce e poi capace di “riciclarsi” col sorriso sulle labbra, dopo la Liberazione. Un film che rivedrò stasera, fra poco, con più consapevolezza che in passato; adesso che mi torna soprattutto alla memoria il sorriso da gentiluomo di Giorgio Bassani, cui mi capitò di stringere la mano qualche anno prima della sua morte (avvenuta nel 2000) a Roma, nei pressi di Piazza del Popolo. Non senza avere aggiunto, in conclusione, di essermi sempre e comunque goduto la fin troppo fiorente sua ipotassi, nelle “storie ferraresi” appena lette: ossigeno puro, capacità polmonare, direi, di un narratore principesco; altro stampo neppure da porre in paragone con la sciatta, poverissima paratassi di troppi romanzi d’oggi sfornati come il pane.
Andrea Mariotti
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