Per cercare di giungere al trentennale della strage di Capaci di lunedì prossimo in modo non meccanico -considerando la sciagurata invasione russa dell’Ucraina che comprensibilmente monopolizza l’attenzione di tutti, a novanta giorni ormai dal suo inizio- ecco che con calma ho finito di leggere ieri il volume di Roberto Saviano “SOLO E’ Il CORAGGIO, Giovanni Falcone, il romanzo” (Bompiani editore), in libreria dalla fine dello scorso aprile. Prendere atto che di fronte a una tematica del genere Saviano gioca in casa, è come scoprire l’acqua calda, questo è ovvio; tuttavia la narrazione in oggetto sorprende e coinvolge per andatura battente, febbricitante, con non poche pagine in cui il lettore “sente” di trovarsi nella testa di Giovanni Falcone, dentro la cascata delle sue emozioni e del crescente suo sconcerto soprattutto all’indomani del primo grado di giudizio del Maxiprocesso (1986); qui alludendo al breve capitolo 39 del libro intitolato “Notturno”, laddove le sconsolate meditazioni del giudice (che si sente già molto isolato), vengono efficacemente risolte nelle battute finali di detto capitolo :”Sarà bellissima l’alba, domattina. Verrà il sole e scaccerà via le ombre con ostinata e feroce strafottenza. Gli uomini, in questo, non hanno parte. Non contano niente…”: impossibile infatti non pensare in questo caso alla parte iniziale dell’ultima strofe del leopardiano “Tramonto della luna” del 1836, con tutto il peso ormai mortifero dell’astro, così centrale nella grande poesia del Recanatese, ad ispirare questo canto. Ma, tornando al romanzo di Roberto Saviano, nel suo incalzante tratteggiare il fatalismo crescente di Giovanni Falcone dopo il fallito attentato dell’Addaura del 1989 -rammentiamo al riguardo le “menti raffinatissime” di cui cominciò a parlare il giudice in quella occasione- esso trova a parer mio un’acme di cristallina chiarezza nel dialogo fra il magistrato e l’allora ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli, dopo la notizia dell’uccisione di Salvo Lima (marzo 1992); con Falcone che avverte più che mai la morte addosso, peccando anche in questo caso di quella sua quasi fanciullesca ingenuità, nel prevedere anzitutto la caduta di un “politico”, prima che tocchi per l’appunto a lui. Detto tutto il bene del romanzo di Roberto Saviano e non poteva essere altrimenti, devo però riconoscere che, eccezionalmente, è stato un programma televisivo nei giorni passati a permettermi di storicizzare ancor meglio quegli anni terribili che vedono nella strage di Capaci un “acuto” di efferata criminalità (da parte di Cosa Nostra e altre menti e mani sulle quali si sta ancora indagando). Mi riferisco alla trasmissione “Atlantide”, andata in onda su LA7 mercoledì sera per più di quattro ore e condotta da un giornalista che stimo molto, Andrea Purgatori. In breve, per chi non avesse avuto occasione di seguirla, ecco su cosa si è insistito in essa, in modo da farmi toccare con mano -da semplice cittadino italiano che si sforza di riflettere e non dimenticare- il “corpo” ripugnante della collusione fra lo Stato e Cosa Nostra. Punto primo: perché, in concomitanza con l’arresto di Salvatore Riina nel gennaio del 1993, l’abitazione del “capo dei capi” non è stata subito perquisita a dovere dagli investigatori (invocando a scusante un qui pro quo fra Carabinieri e Procura) lasciando che provvedessero all’uopo i mafiosi? Una ventina di giorni dopo, se non ricordo male, la casa di Riina apparve in effetti agli inquirenti perfettamente “ripulita”, e fra coloro che se ne erano occupati, questo è certo, proprio quel Matteo Messina Denaro tuttora latitante e massimo depositario dei segreti di Cosa Nostra (e non solo di essa, evidentemente). Punto secondo, tornando alla strage di Capaci dell’anno precedente: sembrerebbe che da una posizione opposta a quella della collinetta dalla quale Giovanni Brusca azionò il telecomando, altre mani erano pronte, a dire dell’elevato grado di militarizzazione della strage; non ascrivibile tout court ai mafiosi, come del resto le indagini tuttora in corso stanno acclarando con sempre maggiore insistenza ormai da anni. Punto terzo, corollario certamente non secondario del precedente: le sorti delle quirinalizie in quel momento in atto, pendenti dalla parte di Andreotti (nonostante l’omicidio del suo referente siciliano e cioè Salvo Lima), virarono a seguito di Capaci imperiosamente in direzione di Oscar Luigi Scalfaro, in un momento di gravissima tensione politico-nazionale, nell’anno peraltro di “Mani Pulite”, è bene ricordarlo. Punto quarto, relativo a Paolo Borsellino, a quei suoi terribili 56 giorni in cui si sentiva e vedeva già morto, dopo che il fraterno amico Giovanni Falcone gli era spirato fra le braccia: perché in via D’Amelio potevano parcheggiare cani e porci dopo Capaci, sapendo tutta Palermo che Borsellino proprio lì si recava di frequente per andare a trovare l’anziana madre? Punto quinto, forse il più insostenibile di tutti per lo spettatore, nella trasmissione di Purgatori: un filmato in cui si vede un capitano dei carabinieri con la borsa intatta di Paolo Borsellino forse già priva della fatidica “agenda rossa” del giudice, subito dopo la tremenda esplosione di quel 19 luglio 1992 (con la mano smembrata dell’agente Emanuela Loi che impugna ancora la pistola rinvenuta al quinto piano di uno dei palazzi aggrediti dalle fiamme). Mi si perdonerà a questo punto un ricordo personale, di quella domenica 19 luglio 1992: ero appena sceso piuttosto stanco e accaldato dalla montagna, nei pressi di Celano in Abruzzo, e la notizia di via D’Amelio mi provocò un “no!” disperato e le lacrime “civili” più cocenti ch’io abbia mai versato in vita mia, nella piazza alberata al centro della cittadina; giacché avevo avuto bene in mente la contrarietà di Borsellino fin da subito a quella Superprocura antimafia di cui la politica lo voleva assolutamente a capo dopo la strage di Capaci; per tacere del tritolo apparecchiato per ucciderlo di cui lui, Borsellino, venne a sapere non per primo. Borsellino che, dopo Capaci, dichiarò a chiare lettere ai giornalisti di voler essere inteso dai magistrati per gravi notizie di cui era a conoscenza (e che evidentemente non riguardavano soltanto la sua persona ma che, da uomo di legge integerrimo, mai avrebbe offerto in pasto alla pubblica opinione). Questi in conclusione i passaggi che più mi hanno toccato, della suddetta trasmissione di Purgatori e che più mi hanno indotto alla riflessione, circa il 23 maggio prossimo venturo. Un giorno in cui, credo, le coscienze dei giusti dovranno contenere al massimo l’enfasi celebrativa: per rispetto a questi servitori dello Stato che attendono tuttora giustizia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; qui facendo torto, naturalmente, a quanti sono morti per amore e per dovere accanto a loro.
Andrea Mariotti
Ho letto-Andrea-con vivo interesse e partecipazione emotiva la tua ampia ed articolata pagina sul tema “A trent’anni dalla strage di Capaci” con toccanti riferimenti anche alla morte di Borsellino in via D’Amelio: un dramma di cui non si può non coltivare la memoria nel messaggio lasciato dai due magistrati, un dramma che ha inciso profondamente sulla storia dell’Italia repubblicana).”…ricordare Falcone e Borsellino, le loro vite e le loro azioni significa rendere la nostra Repubblica più salda, le istituzioni più forti e tutti noi più uniti…(Maurizio Molinari).