La serrata meditazione di Guglielmo Aprile

 

INTORNO ALL’ULTIMA SILLOGE DI GUGLIELMO APRILE “FARSI AMICA LA NOTTE”, GIULIANO LADOLFI EDITORE, 2020

 

La lettura della suddetta raccolta di poesie è stata tutt’altro che frettolosa, da parte mia. Non diversamente sarebbe potuto accadere di fronte a un libro d’indubbio spessore per compattezza tematico-stilistica. Giustamente Giuliano Ladolfi avverte in prefazione trattarsi di una silloge senza “un’apertura di speranza”, in merito al deserto esistenziale percepito ed espresso dal poeta. Ora, però, bisognerà precisare subito che proprio tale coerente denuncia circa il male di vivere odierno, non fa che rilanciare un leitmotiv di natura critica tutt’altro che ozioso: l’ineludibilità di Eugenio Montale per ogni autore che voglia oggi mirare a una poetica di tipo problematico, non cantabile (senza per questo proibirsi una musica severa in sordina). A novantacinque anni dalla prima pubblicazione dei gloriosi Ossi, insomma, non possiamo che ritornare ad essi per una serie svariata di ragioni che sinteticamente adesso dirò a proposito di Farsi amica la notte, con ciò nulla sottraendo, credo, all’autore; anzi, sottolineando piuttosto il suo rapporto organico e rigenerativo con quello che rimane di gran lunga il poeta più importante del nostro Novecento: Montale, per l’appunto.

In prima sezione della silloge di Guglielmo Aprile, dal titolo Principio di realtà, la mia attenzione è stata subito attirata, in una poesia paradigmatica come Panorama, da quello che non esito a definire lo stilema più significativo di tutto il libro dal punto di vista metrico: l’uso costante e potente dell’endecasillabo non canonico -ovvero atono sulla quarta e sesta sillaba- sotto accento di quinta (“la folla lanzichenecca/ si accanisce a fare a pezzi un giacinto”; qui riferendomi ovviamente al secondo dei versi citati). Uso potente di esso, ho appena detto, in quanto di gusto espressionistico come si può ben vedere, a connotare un vivere lacerato e violento nonché insensato, che il poeta registra fermamente, senza svolazzi estetizzanti (mostrando altresì a parer mio di avere profondamente introiettato la lezione del primo grande Montale, imperniata su combinazioni metriche tutt’altro che rivoluzionarie e però marcate guarda caso dall’apparire del suddetto endecasillabo non canonico sotto accento di quinta; e valga in sintesi un verso come “la dubbia dimane non ti impaura” in Falsetto, nella parte iniziale degli Ossi). Ma del resto anche il fraseggio di Guglielmo Aprile, teso a connettere agli occhi del lettore segmenti isolati e desolati del reale, non può non far pensare a un procedimento stilistico schiettamente montaliano, strategico non tanto negli Ossi quanto nelle Occasioni e nella Bufera; e cioè la catalogazione di cose, oggetti, in funzione allusivo-espressiva; perché, sempre nella succitata poesia di Aprile, ecco che dopo i due versi prima riportati leggiamo: “ gli annunci degli appartamenti in svendita/ tappezzano a perdifiato/ le strade frastornate/ dalla rabbia dei veicoli in corsa;/ e il compito di aritmetica/ che non trova soluzione; o forse neppure iniziato,/su un quaderno abbandonato in un angolo”. Trovo necessario a questo punto ribadire tutta la mia consapevolezza di non fare torto alcuno a Guglielmo Aprile, così dicendo; nel senso che il nostro autore, prendendo in tutta evidenza le mosse da Montale -ma senza appiattirsi sul grande Genovese- esprime nel corso della raccolta in oggetto vibrazioni di poeta autentico; innanzitutto per la ferrea costanza di una visione nichilista, sconsolata del reale (non mitigata neppure dalla gloria di un montaliano “disteso mezzogiorno” e ispirata, più in profondità, forse, dal celeberrimo Spleen LXXVIII dei Fleurs du Mal, ripensando ad “Angoscia” col suo vessillo nero). Ma del resto, in tempi di cantastorie che si spacciano per poeti, come potrebbe un libro serio come quello di Guglielmo Aprile prescindere dai massimi riferimenti della modernità europea? Ripeto: partendo da essi il Nostro elabora e caratterizza la sua ricerca poetica, che in Farsi amica la notte si sviluppa in modo qualificante, come adesso cercherò di mostrare in modo necessariamente conciso.

Nel fare ciò, come prescindere intanto dalla poesia che suggella la suindicata prima sezione della silloge di Aprile? consideriamo infatti la nuda bellezza dei seguenti versi di Esilio: “E’ stato come, al risveglio, scoprirsi/ abbandonati/ in un luogo di cui non si hanno ricordi,/ nel mezzo di una pianura/ sventrata/ dal morso del vento: nudi tremanti/ su un letto di ardesia…”;  per dire come morde, qui, l’endecasillabo sotto accento di quinta del nostro poeta rafforzato nel verso successivo dall’evocazione di un luttuoso, onirico colore. Ché la visionarietà a conti fatti non manca al Nostro, imbattendoci in una poesia quale Artificio retorico (siamo alla terza sezione della raccolta intitolata Il ramo d’oro) dall’icastico attacco: “Questo fumo fitto che assorda gli occhi/ attutisce l’ulcera del fanale/ che brucia in fondo al molo…”; laddove la felice sinestesia del primo verso introduce il lettore nel vivo di una poetica ulcerata, se così si può dire, coerentemente granitica nel denunciare il malessere esistenziale. Più avanti, sempre in terza sezione, una poesia come Alibi e amuleti mostra e dimostra in terza strofe a parer mio il succitato rapporto rigenerativo che Guglielmo Aprile intrattiene con Montale: “Scarni e aleatori, i dati;/ ma è questo, l’amuleto/ che rende perdonabile lo sbaglio”; nel senso che, qui, l’immenso Genovese di Dora Markus è alle spalle, prescindendo del tutto il nostro poeta da incantamenti sonori nonché salvifici, giacché in prima strofe della poesia in oggetto, con lucida coscienza e ferma pronuncia leggiamo: “Il buio sta rintanato negli angoli/ come un serpente insonne,/ affamata voragine di giorni”. La musica severa e compatta di Farsi amica la notte non è peraltro avara di squisitezze in quanto a fattura del verso per il lettore attento, sempre nell’alveo di un antilirismo di fondo, come si vede bene in una poesia come Il pane del sole (sempre in terza sezione): “Dubbi e contradditori, i resoconti;/ eppure la miopia/ dei mezzi attuali di indagine/ e la fallacia di ogni previsione/ sono il perfetto, inconfutabile alibi”; in quanto, qui, non si può non rimanere ammirati di fronte a quest’ultimo endecasillabo nell’occasione canonico, sdrucciolo a più non dire, finemente allitterato e funambolico, araldico suggello di una poetica problematica e di vivissima attualità. Chi scrive non nega poi di essere rimasto toccato da una poesia quale Codice (ancora in terza strofe della raccolta): ”Interpretiamo il gergo della nebbia;/ questo velo, ignoriamo se il nostro alito/ o il vapore alzato dalla banchina/ che si insinua, fa opachi i finestrini:/ ci protegge/ dalla vista degli alberi sbraitanti,/ dalla loro minaccia,/ dalla loro tremenda allegoria-…/ gli alberi scarmigliati ed assassini,/ che inseguono qualcuno/ oppure sono in fuga, da un incendio/ scoppiato in fondo ad una certa via”; e questo per la ragione che qui siamo ben distanti -purtroppo e in modo attuale e veritiero!- dall’accorato lirismo dell’ultimo elzeviro di Dino Buzzati, dedicato proprio agli alberi dolcemente umanizzati che si allontanano velocissimi, osservati dal viaggiatore in treno  (elzeviro apparso sul Corriere della Sera dell’otto dicembre 1971, alla vigilia del ricovero in clinica del grande scrittore bellunese, scomparso il 28 gennaio dell’anno successivo). Il richiamo all’autore del Deserto dei Tartari risulta fortemente voluto, se pensiamo ai versi di Non verrà mai nessuno (in quarta sezione dal titolo Gibilterra della silloge di Aprile): “…Ma l’orizzonte non cambia parere,/indossa una sola faccia da sempre,/ oppone l’ironica sfinge/ del suo sorriso di macigno ai nostri/ sforzi di eluderne la guardia,/ e un silenzio che fa alla lunga folli”: il tema per l’appunto buzzatiano dell’attesa disillusa (accresciuto in questo caso da un’eco dell’indifferente Natura leopardiana contrapposta al povero Islandese), risulta nei suddetti bellissimi versi peraltro rilanciato nei termini di un elegante e rigoroso far poesia, osservando qui di sfuggita il passaggio da un endecasillabo canonico al successivo sotto accento di quinta, secondo quanto osservato all’inizio (“Ma l’orizzonte non cambia parere,/ indossa una sola faccia da sempre”). E nel momento in cui lo sguardo di Guglielmo Aprile si focalizza sul paesaggio naturale, è possibile avvertire a parer mio un maggior respiro poetico che non guasta in una raccolta come Farsi amica la notte così intrisa di rigoroso, plumbeo nichilismo; alludendo a un testo quale il seguente che riporterò integralmente (sempre nella sezione Gibilterra), essendo per me la poesia più felice dell’intera raccolta:

 

Quando è solo

 

La sera, quando tutti dalla spiaggia

sembrano andati via,

il mare è come assorto

in un lungo monologo ostinato;

il suo volto è velato da un livore perlaceo

e lui

nella sua cella

da millenni

inascoltato tesse

quella sua serrata meditazione

a bassa voce: ogni onda

un pensiero, un passaggio

del suo argomentare lucido e inconcludente;

 

parla da solo, come i matti,

o sta forse pregando, e quale dio?

Vigila alle porte chiuse

di una questione enorme

come il tempo, come il suo orizzonte,

ma non arriva mai a una soluzione

 

una poesia notevole questa, nella quale sia la femminea marina dannunziana sia il paterno Mediterraneo degli Ossi montaliani sono abbondantemente alle spalle di un poeta, Gugliemo Aprile, capace di ascoltare il mare senza invadenza alcuna del proprio io lirico; davvero messo in un cassetto, quest’ultimo, per rispettare la serrata meditazione del mare, correlativo oggettivo qualificante al meglio una silloge come Farsi amica la notte e, ancora una volta, splendido endecasillabo sotto accento di quinta di una musica senza canto.

 

Andrea Mariotti

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