INTORNO A TRINCEA DI NUVOLE E D’OMBRE DI MARZIA SPINELLI, MARCO SAYA EDIZIONI, 2019
Di fronte allo spessore di questa silloge, risulta più che mai motivata la considerazione finale di Plinio Perilli in prefazione al libro: “ecco come e quando la poesia torna ad avere un ruolo, a far capire; non spiega ma conosce”. In effetti balza evidente fin dalle prime pagine della raccolta l’incidenza del classico enunciato di Giovenale (“facit indignatio versum”) sulla ispirazione della nostra poetessa, nei termini di un discorso intriso di passione civile, risentito ma non agitato; come del resto ho già avuto modo di osservare in un precedente mio breve scritto concentrando l’attenzione sulla poesia Tornando da Arezzo, forse il punto più alto toccato dalla Spinelli nella silloge in oggetto. Silloge che, suddivisa in varie sezioni, propone al lettore diverse angolature della parola guida trincea nel suo sviluppo tematico; talché, all’interno di esse, mi soffermerò adesso sulle poesie a parer mio più significative: guarda caso tutte dall’ampio respiro, appartenendo a Marzia Spinelli dal mio punto di vista la veste di passista più che di scalatrice o velocista; volendomi affidare al lessico del ciclismo agonistico al fine di dar conto, in qualche modo, del meditato fraseggio di uno stile che procede senza strappi (non disdegnando però gli “allunghi”) in quanto semanticamente ricco di cose da dire, e quindi per istinto sicuro, pacato. Ma è giunto il momento di avvicinarsi davvero alle poesie, non potendo non prendere le mosse dalla seguente, inclusa nella prima sezione della silloge Trincea dell’ombra:
L’ombra umida della sera avvolge come una piovra
il cielo bianco della città bella. Penetra ossa,
estremità, tutte le membra.
C’è attesa di Primavera, ma le ore d’inverno
ripiegano in casa e noi nella casa,
dove le valvole nuove dei radiatori
possono scegliere la giusta temperatura.
Tutti pensiamo –ci vorrebbe
un vento forte,
una mareggiata di luce…
ma poi rammentiamo
le tempeste che smantellano
non è detto possano cambiare
ciò che siamo.
Sappiamo l’umido humus,
la terra certa,
di altre persuasioni e meraviglie
andiamo in cerca
da notte a giorno, da Inverno
a Primavera stemperando
caldo e freddo,
unica vera misura
d’ingannevole eternità
necessariamente la suddetta poesia è stata riportata nella sua interezza, risultando di valore paradigmatico all’inizio della silloge di Marzia Spinelli. Così, a volo d’uccello, occorrerà intanto far cenno alla strofe incipitaria di essa, fittamente assonanzata in icastica trama; non senza sottolineare, più avanti, una quasi impercettibile osmosi tra gli umani e gli oggetti che finiscono per farla da padroni nello scenario evocato (“dove le valvole nuove dei radiatori/ possono scegliere la giusta temperatura”). La nostra poetessa che sopra abbiamo immaginato come passista, si prende in effetti il giusto tempo per toccare il punto sul quale le preme riflettere (“Sappiamo l’umido humus,/ la terra certa”): vale a dire il volgere inesorabile delle stagioni, che noi cerchiamo inutilmente di neutralizzare “stemperando/ caldo e freddo” quasi posseduti, regolati dalle “valvole nuove dei radiatori”; sicché, qui, possiamo ben parlare di una moderna e corrosiva ricreazione degli immortali versi oraziani culminanti nel celeberrimo pulvis et umbra sumus (Carmina, IV, 7, 16). Con una lirica come questa il libro di Marzia Spinelli prende pertanto posizione nel suo rapportarsi alla poesia d’oggi, configurandosi come risentita voce civile di cui non possiamo fare a meno quali lettori non fatui. Anche la poesia seguente andrà riportata integralmente, per le ragioni che subito dopo dirò (dalla seconda sezione del libro, Trincea del quotidiano):
Ogni giorno vesto l’armatura
porto anche l’arco, le frecce, lo scudo,
indosso il casco come l’elmo di Scipio,
e qualunque copricapo, variabile come il tempo,
a proteggere la testa, così instabile
riecheggia e suona ogni dì una musica nuova
scompigliata e dilatata melodia d’accadimenti,
ordinata cabaletta di ricordi, stanzetta di memoria,
sempre a passo lieve e piè veloce in un dove presente
ma lontano, umido e vischioso, dove perdo
ad ogni semaforo dell’armatura un tratto
e mi chiedo dove sto andando, dove vanno
tutti gli elementi, tutte le particelle della vestitura,
granelli che frantumano sotto i ponti lungo fiume
o fondigli a disciogliersi in mare,
a sfaldarsi in una risacca solo mia,
ma è di tutti la stessa domanda
se qualcosa di noi si salva dalla dimenticanza,
se in quel dopo a disperdersi a terra
c’è pace
ecco, di fronte ad una poesia del genere sentiamo di trovarci veramente nel cuore della raccolta di Marzia Spinelli. Il respiro lungo della nostra poetessa si manifesta qui potentemente, per il tramite di una enumeratio che è fraseggio sinfonico, capace di fondere pensieri e sensazioni, semafori e frastuono quotidiano nel ritmo della svestizione dell’armatura; fino ad un controllato ma pungente nichilismo che parla per tutti, voce corale che dal disagio individuale si innalza come interrogazione sulla condizione umana (“se qualcosa di noi si salva dalla dimenticanza,/ se in quel dopo a disperdersi a terra/ c’è pace”). Non si dovrà mancare di sottolineare a questo punto la consapevolezza di trovarci al cospetto di un mirabile, unitario flusso poetico che del verso libero necessariamente si nutre, in quanto compiuta musica interiore (sapiente altresì nello sfruttare al meglio pause e riprese con valore segnatamente sintattico).
In terza sezione di TRINCEA DI NUVOLE E D’OMBRE dal titolo Periscopio delle nuvole, subito dopo quella che sopra ho indicato come la poesia più alta dell’intera silloge, e cioè Tornando da Arezzo -a proposito della quale è possibile leggere la mia nota critica apparsa sul blog andreamariotti.it in data 31/5/2019 e intitolata Sul sogno insonne di Marzia Spinelli– ci troviamo di fronte ai versi altrettanto significativi di Agosto:
Su questa riva di mare che increspa
come la mia bocca di rabbia e vecchiezza,
su questa spiaggetta di solitudine
si bagnano tutti i sogni che non sono stati,
il vento li porta via mentre rincorro l’ombrellino
che vola e si ferma, incaglia la punta
e prosegue la corsa e si placa ancora
come volesse fuggire da me e pure tornare
sfidando il mio affanno e andando e inseguendo
incrocia un passante, sembra aiutarmi
l’uomo anziano, quasi pietoso il suo passo
volge alla mia stessa direzione,
ma poi prosegue la sua passeggiata,
non guarda quando raggiungo
il mio fuggitivo
e lo afferro e torno indietro nel deserto
di questa riva d’Occidente allo stremo
dove passa una cinese
che non offre massaggi…
d’obbligo anche in questo caso proporre all’attenzione del lettore la poesia quasi nella sua interezza, per non impoverire in modo alcuno l’acme di essa, laddove una qualsivoglia “riva di mare” diviene “riva d’Occidente allo stremo”. Sicché, anche in questa occasione, dal particolare all’universale, nei termini di una desolata presa di coscienza storico-sociale che sul piano stilistico vale come efficacissima impennata. Ma questo guizzo a ben vedere altro non è che la cima di un climax per l’appunto in atto nei versi precedenti, tali da evocare uno scenario onirico e come vetrato; all’interno del quale la poetessa, parte in causa, vessata dall’inquietante ombrellino, esperisce una solitudine cocente nella sua rincorsa affannata e marcata, sul piano fonematico dei versi, dalle assonanze incipitarie aspre e chiocce (“increspa-vecchiezza-spiaggetta”).
In quarta sezione della raccolta, intitolata La lirica delle nuvole, si legge la seguente poesia, dalla prima notevole strofe:
Alla luna
La notte ti guardo
e ti vedo piena
come una donna gravida
e nel tuo solo biancore immagino
la punta dei tuoi seni
e lievi segni come rughe
mentre cerco l’orma dell’uomo
la sua impronta
pestata sulla tua sembianza di fantasma
e aspetto la tua luce estranea
lontana da questa terra scura
dove abito
dove non trovo posto
ora non può sfuggire qui una pungente dissacrazione dell’astro caro ai poeti, a mezzo di un lessico “basso”, antilirico per eccellenza; ma, in questo caso, mi sia concesso di non essere d’accordo con il prefatore della silloge, il quale parla al riguardo di una “sorprendente divagazione sulla Notte (niente affatto leopardiana)”. Ciò in effetti può esser vero limitandosi tradizionalmente ad una visione “idillica” dei CANTI del Recanatese con riferimento Alla luna, il testo del 1819; ma non più condivisibile allorché, all’altezza del Canto notturno del 1829-30, nel lessico petrarchesco ormai agli sgoccioli della più che matura poesia leopardiana irrompe il duro, risentito tirar le somme del pastore di fronte all’enigmatico splendore lunare, di cui eloquente spia linguistica risulta il questo iniziale in funzione per l’appunto prolettica: “Questo io conosco e sento,/ che degli eterni giri,/ che dell’esser mio frale,/ qualche bene o contento/ avrà fors’altri; a me la vita è male” (versi 100-4 del suddetto canto). Così dicendo, nulla si vuole naturalmente togliere alla forza dei versi della Spinelli in questione; giacché in essi, proprio grazie alla “memoria involontaria” della grande poesia alle nostre spalle, ecco che l’apostrofe all’astro, carica di disagio esistenziale, viene a cogliere piuttosto la sua pesantezza di “donna gravida” dai “lievi segni come rughe”, con effetti di moderna e icastica resa; corroborata dalle scelte lessicali (“mentre cerco l’orma dell’uomo/ la sua impronta/ pestata sulla tua sembianza di fantasma”).
Il richiamo appena fatto in merito alla “memoria involontaria” dei poeti, a maggior ragione andrebbe esteso a mio avviso alla poesia Passa l’Angelo, che troviamo in Tregue, quinta sezione del libro (bastando qui la prima strofe della lirica):
Vedi, ogni trincea si fa occasione.
Non ci abbandona l’Angelo
evocato ogni mattina per timore:
sa di essere consolazione
e non chiede altro. Lo rinnego
quando troppi sono i morti,
troppo ingiuste le perdite
ebbene è impossibile non riconoscere nell’attacco di questi versi un memorabile calco montaliano (“Vedi, in questi silenzi in cui le cose…”, vale a dire l’incipit in terza strofe dei Limoni; per tacere, sempre a proposito del primo verso della nostra poetessa, di “ogni trincea si fa occasione”, a ribadire l’ineludibilità del massimo poeta del nostro Novecento per chi voglia far poesia consapevole e seria. Ma interessante è per l’appunto lo scarto operato dalla Spinelli rispetto alla “disturbata Divinità” di sapore araldico evocata da Montale in chiusa della suddetta strofe dei Limoni; nel senso che, la nostra poetessa, per suo conto e originalmente, nei versi del suo Angelo, imbastisce un più elastico e quotidiano rapporto col divino a seconda delle “perdite”, non disconoscendo alla creatura alata “aura bislacca” nel suo resistere ai colpi iscritti negli umani destini, così come risulta nella conclusione affabile e un po’ ironica di questa bella poesia.
Nelle conversazioni avute con Marzia Spinelli, più volte si è sottolineata la necessità del labor limae, in poesia, considerando la pletora odierna di cantori e cantastorie; e, ovviamente, non nel senso riduttivo di un colpo di cipria assicurato in punta di penna al proprio scrivere, bensì di un non frettoloso sviluppo delle strutture semantiche del testo auspicabilmente frutto di non superficiale tensione poetica. Sicché paradigmatica appare al riguardo la seguente composizione inclusa in Trincea della parola, sesta sezione della raccolta e intitolata I colori della poesia, qui proposta quasi per intero (laddove il soggetto di essa è la “rossa…prima parola/…dal nero del dolore”):
…Sembra che voli, ma a metà si ferma.
Insegue la pausa giusta, quasi un riposo
sull’orlo d’un abisso.
Là afferra un gran respiro
che ha verdi venature e mezze tinte
e cono d’ombra nella luce,
simile al bosco dove s’immagina
finita
ma è tempo di parlare, sempre a proposito di questa stessa sezione del libro tematizzata ora come Trincea dei poeti, dei versi dedicati dalla Spinelli ad Amelia Rosselli. Versi vividi e cari, di plastica e quotidiana concretezza, atti a rievocare il disagio di un viaggio estivo in autostrada “tra Napoli e Roma” con tanto di provvidenziale sosta in autogrill per rinfrescarsi, la grande Amelia e la nostra poetessa. In fondo un lettore chiede alla poesia di farlo viaggiare, e questo a me è capitato al riguardo, leggendo e rileggendo i seguenti versi:
…noi due diverse e vicine
cosa lavammo
se non il sudore dei versi…
colava sulla tua pelle,
bianca come nordica roccia,
come lacrima pura e innocente
della parola la rabbia, l’arsura impastata…
mistero della poesia, che umile e concreta, senza enfatici svolazzi, riesce a toccare l’essenza della cose liberando la nostra immaginazione, se è vero com’è vero che leggendo i succitati versi ho creduto di contemplare le maestose BAGNANTI di Cezanne, più volte memorabilmente dipinte dal grande maestro!
Infine, in settima e ultima sezione (L’ombra tra le nuvole) la poesia conclusiva del libro che, dal verso incipitario “La terra è la scacchiera matta di Arlecchino”, incede fino a suggerire al lettore quanto segue, nella strofe finale:
L’insolita leggerezza delle nubi
è il dono della sfera, la pace fatta
dimentica di gravità
e qui non possiamo non cogliere il frutto di una finale elevazione, di trincea in trincea, avendo seguito il fil rouge della raccolta. Davvero torna in questo caso alla mente la memorabile definizione della “leggerezza” nelle Lezioni americane di Italo Calvino: “gravità senza più peso”. Definizione ad hoc in merito ai suddetti versi, refrattari ad un evasivo lieto fine e piuttosto sgorgati dalla penna di una poetessa matura e consapevole, capace di donarci un libro che non dimenticheremo facilmente per la profonda sua eticità.
Andrea Mariotti
Sono veramente grata ad Andrea per la sua lettura così ampia e profonda e attenta, vicina come più non si potrebbe.. le parole con cui ha presentato il libro il 26 u.s. all’Aleph e questa splendida nota critica, direi un vero e proprio saggio !, la sua sentita condivisione e la chiarità esplicativa di passaggi e riferimenti e collegamenti da un testo all’altro, la precisione filologica e poetica con cui Andrea si é speso in questa lettura sono per me un dono immenso, direi una magia rara tra critico e autore.
un caro saluto.
Marzia
Grato alla poetessa per le sue parole, non posso che ribadire tutto il bene che penso del suo libro; concordando con Lei circa la natura dell’incontro critico-creativo realizzatosi. Con un caro saluto
Andrea