Lo spirito dei grandi poeti si compiace, voglio immaginare, allorché ci rechiamo a visitare i luoghi dove sono sepolti. Sicché, questa mattina, giunto a Firenze, con trepidazione mi sono diretto verso il cimitero di San Felice a Ema, dove riposa Eugenio Montale insieme alla moglie. Non sarà superfluo rammentare che, in questo 2019, siamo ad ottant’anni esatti dalla pubblicazione delle Occasioni (ottobre 1939), secondo libro del grande Genovese e per molti il suo capolavoro.… Precisato che per quanto mi riguarda la maggiore mia considerazione va alla raccolta successiva del poeta, ossia La bufera e altro del 1956 (alla quale ho a suo tempo dedicato un non indegno scritto critico apparso sulla rivista letteraria “I Fiori del Male”), ecco che non ho difficoltà alcuna a riconoscere nelle succitate Occasioni il libro storicamente più “europeo” di Montale (con Giorgio Zampa se non rammento male a ricordare che esso trovava posto nello zaino dei nostri soldati, alla stregua di quanto era accaduto con Rilke sul fronte tedesco). Ma naturalmente queste osservazioni hanno soprattutto lo scopo di introdurre il racconto della forte emozione da me provata in mattinata, al cospetto della tomba di Montale e della moglie. Una tomba fin troppo sobria in tutta evidenza, come si vede in foto, per non dire del tutto anonima; considerando il lustro del maggiore poeta del nostro Novecento, premio Nobel per la Letteratura nel 1975. E proprio per tale forte contrasto la mia emozione è stata profonda e ne parlo, qui. A molti è nota, al dunque, quella che è stata l’umana spiacevolezza di Montale, con puntuali riscontri di cronaca che inducono a fare elegante ricorso alla “sindrome di Wagner”, per rendere più tollerabile lo iato fra la grandezza letteraria del Genovese e la sua statura di uomo. Ebbene, l’ umiltà della sua sepoltura, come si vede nella foto scattata oggi, eserciterà in ogni caso da subito in me un senso di pacificazione a fronte del suddetto iato; nonché un monito a ricordarmi ancor meglio il “dovere ontologico” di un poeta in tempi inebriati dal culto dell’apparire. Essere poeti nella profondità delle proprie fibre. Badando a scrivere e scrivere, e non è poco.
Andrea Mariotti
Giusto e nobile il monito di Andrea in visita alla dimora estrema del grande Poeta e della degna consorte, a ricordarci la necessità se non l’urgenza di sobrietà e semplicità; l’invito rivolto ai poeti, ma non soltanto, a respingere con fermezza la deriva dell’apparire, a vigilare sempre mirando semplicemente ad essere.
Grazie Andrea per questo bel messaggio.
Marzia
Il tuo scritto, Andrea, mi ha riportato alla memoria un momento di grande commozione, quando nel 2005 -in occasione della XXII edizione del Premio Letterario Cesare Pavese -che mi vide vincitrice assoluta della sezione Poesia inedita- ebbi modo di visitare a Santo Stefano Belbo la tomba dove riposano le spoglie di Cesare Pavese: una tomba estremamente sobria nella nuda terra di pietra arenaria delle Langhe. Sulla lapide: il nome e il cognome del grande scrittore, poeta e critico -una delle figure centrali della cultura italiana del XX secolo- e una frase tratta dal suo Diario: “Ho dato poesia agli uomini. Che siano queste nostre sensazioni “un monito a ricordare il Dovere Ontologico di un poeta in tempi inebriati dal culto dell’apparire” come tu saggiamente affermi.
Parole limpide ed essenziali, quelle della poetessa Marzia Spinelli: “…vigilare sempre mirando semplicemente ad essere”. Grazie, Marzia
Andrea
Un caro saluto a te, Fiorella