A Bruno Nacci, valente francesista e scrittore, si deve questo bellissimo ricordo dell’amico Lucio Felici apparso su Paragone…a/m:
In ricordo di Lucio Felici
Da pochi mesi è uscita la monumentale e meritoria edizione critica dei 2.279 sonetti del Belli: I Sonetti (Einaudi / I Millenni 2018, 4 voll.), a cui, insieme a Pietro Gibellini ed Edoardo Ripari, ha messo mano negli ultimi anni della sua vita Lucio Felici (1935-2017), eccezionale figura di studioso e dirigente editoriale. Allievo di Giuseppe Ungaretti e Giacomo Debenedetti, esordì svolgendo ricerche sei-settecen- tesche sotto la guida di Walter Binni, diventando membro dell’Arcadia e dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, nonché del Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli e in seguito del Centro Nazionale di Studi Leopardiani di cui fu a lungo presidente del Comitato scientifico. All’attività di studioso, mai dismessa, affiancò una intensa carriera editoriale durata quarant’anni e coronata dalla direzione delle Redazioni Garzanti prima, in seguito come direttore editoriale della Giunti e della Newton&Compton. Collaborò ad alcune delle maggiori imprese editoriali del dopoguerra, per citarne due tra le molte: l’Enciclopedia Europea Garzanti e la Storia della letteratura italiana di Emilio Cecchi e Natalino Sapegno. Dette inoltre impulso e diresse con fermezza e competenza le Opere di Gadda, a cura di Dante Isella e la prima edizione critica dello Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi a cura di Giuseppe Pacella. Sua la fortunata edizione Newton&Compton, in collaborazione con Emanuele Trevi, di Tutte le poesie e tutte le prose di Leopardi (1997), mentre nei Meridiani della Mondadori curò con Claudio Costa Tutte le poesie di Trilussa (2004). I suoi saggi leopardiani sono raccolti nei volumi L’Olimpo abbandonato. Leopardi tra ‘favole antiche’ e ‘disperati affetti’ (Marsilio 2005), La luna nel cortile. Capitoli leopardiani (Rubbettino 2006) e L’italianità di Leopardi e altre pagine leopardiane (Maria Pacini Fazzi Editore 2015, con una presentazione di Luigi Blasucci), che gli valsero il Premio La Ginestra (2009) e il Premio Giacomo Leopardi (2012).
Lucio Felici fu un intellettuale a tutto tondo impegnato nel mondo dell’editoria, anche se, con ironia e vantando con modestia le sue doti organizzative, amava definirsi semplicemente ‘un uomo d’ufficio’. Di carattere determinato, si batté costantemente all’interno dell’industria editoriale, ora per realizzare un’impresa che riteneva della massima importanza, come l’edizione nella collana I Libri della Spiga dello Zibaldone a cura di Pacella o l’avvedutezza con cui mise in salvo autografi gaddiani destinati alla dispersione nei vecchi uffici garzantiani o, più tardi, imponendo una fortunata collana di classici alla Giunti, in una sorta di ideale prosecuzione dei Grandi Libri Garzanti, ora per assicurarsi collaboratori validi, spesso ai massimi livelli di competenza, garantendo loro autonomia e dignitose condizioni economiche. Non fu mai uno Yes Man, prono al volere o ai capricci della proprietà e dei suoi più duttili funzionari. Sostenne scontri durissimi, con ragionevolezza e caparbietà, tutte le volte che vedeva o sospettava un intrigo, o anche l’ombra di un interesse personale o di parte al posto dell’idea comune di un progetto da avviare o portare a termine. Pagò per questo. Ma ciò che faceva di lui un punto di riferimento costante per scrittori e studiosi, non era solo la sua capacità di trattare con loro alla pari, nella sua veste di critico e storico letterario stimato e autorevole, ma anche la fiducia che in lui riponevano di non venire sacrificati a ragioni diverse da quelle in cui li aveva coinvolti. E si tenne sempre in secondo piano, senza rivendicare, anche quando avrebbe potuto, ruoli maggiori o almeno il nome in copertina, come accadde per i Grandi Libri, che non recarono mai la sua firma editoriale pur dipendendo in tutto e per tutto dalla sua cura, sia nella scelta dei collaboratori, sia in quella dei temi, sia nella più modesta revisione delle bozze, a cui non si sottraeva nelle lunghe e operose giornate. Studioso, sì, ma anche tecnico competente, e quando compilò il famoso Manuale di stile (Giunti), vera Bibbia per chi vuole conoscere e rispettare le norme redazionali che presiedono all’uniformazione, lo mise a disposizione di tutti, senza reclamare diritti d’autore. Modesto lo fu sempre, anche nell’accettare sistemazioni che altri avrebbero respinto indignati (la mania di tutti i dirigenti di avere una collocazione logistica adeguata al rango), come l’ufficetto angusto e perennemente odorante di pipa che si affacciava sulla Via della Spiga a Milano, e questo in apparente contrasto con il carattere, a tratti irascibile, che al contrario di tanti piccoli despoti preda dei loro scatti d’umore, non ne diminuiva la stima agli occhi dei suoi collaboratori come dei più celebrati accademici. Perché le sue sfuriate, per altro di breve durata, avevano sempre come oggetto la sciatteria, l’imprecisione, l’ignoranza di chi non aveva fatto o non sapeva proprio fare il suo lavoro, ma erano al tempo stesso una lezione su come ravvedersi e migliorarsi. Non fu mai ingiusto, né prese di mira i più deboli, ebbe sempre un rispetto sommo per il lavoro altrui, dal più umile al più titolato, e l’interesse con cui si informava presso ciascuno delle vicende famigliari, la partecipazione sincera alle piccole e grandi gioie o dolori lo rendevano un amico sincero.
Romano di nascita, anzi ‘testaccino’, altra definizione che dava volentieri di se stesso, con il vezzo di una nobiltà popolare che rivendicava, mentre taceva dell’altra, quella genealogica, ignota ai più, che certo non divulgava e di cui un poco credo si vergognasse, il carattere spontaneo e gioviale ne faceva un commensale alla mano, prodigo di aneddoti, battute pungenti, riflessioni ironiche, ammiratore della bellezza femminile, ammirazione che esprimeva con il garbo e la finezza di chi diceva di sé di avere un solo difetto, una fortunata monogamia. E attorno, come baluardo di una vita non solo operosissima, ma anche movimentata, aveva una famiglia a cui era legato in modo sollecito e affettuoso, largamente ricambiato, anche durante le non brevi assenze per motivi di lavoro nella sua vita di pendolare delle lettere. Era dotato di una memoria straordinaria, e poteva citare indifferentemente lunghissime poesie in italiano, in dialetto o in latino, nomi, circostanze, fatti avvenuti nel passato, lemmi dai dizionari, luoghi, date e dettagli. Melomane appassionato e competente, negli ultimi anni gli studi di una nipote violoncellista lo rendevano visibilmente orgoglioso e non si perdeva una prova, una esibizione, un esame.
Chi non ha avuto occasione di leggere i suoi finissimi commenti alle poesie di Leopardi (quelli ad esempio della sua edizione dei Canti, 1974) o la brillante introduzione al Trilussa e l’esemplare saggio biografico, ora riediti in plaquette (Vita breve di Trilussa 2018), o i saggi leopardiani, può farsi un’idea del suo stile elegante, nutrito di sagacia interpretativa e di una erudizione che lasciava appena trasparire lontano da ogni birignao pseudo accademico e dalla stucchevole terminologia delle teorie letterarie, leggendo i commenti ai sonetti del Belli nella presente edizione einaudiana magistralmente curata da Pietro Gibellini. Inizialmente avrebbe dovuto occuparsi di metà dei sonetti, dividendosi il lavoro con l’amico Gibellini, ma traversie varie e non ultime le condizioni di salute che resero improbo il lavoro, si limitò a curarne 416 (1039-1455), profondendo in loro e nella più complessiva organizzazione del lavoro la sua vasta cultura e la sua esperienza editoriale. Da essi traspaiono i caratteri fondamentali del suo stile: la puntigliosa attenzione filologica e il gusto, non antiquario o pedante, ma narrativo, per la ricostruzione storica di vicende e personaggi, da ultimo l’eleganza di una scrittura tersa ed essenziale, che tutti gli riconoscevano come dono affinato in decenni di studi e attività saggistica.
Si veda, a mo’ di esempio, proprio il primo dei sonetti commentati da Felici (Er grann’accaduto successo a Pperuggia), dove il commentatore risale all’episodio di cronaca nera che sta all’origine del sonetto, per ricostruirlo sulla base delle fonti giudiziarie (qui come altrove, Felici s’imbarcava in ricerche minuziose e di prima mano, sotto l’impulso di una genuina curiosità che si traduceva in sapido racconto) e infine colloca la prospettiva belliana all’interno di un più vasto orizzonte culturale europeo (i Goncourt e Zola). Poteva capitare che un personaggio citato dal poeta, Maria Malibran (La musica de Libberti, La Ronza), eccitasse la sua passione musicale ma anche quella del segugio, e lo spingesse a ricerche sulla scomparsa dal ridotto della Scala di Milano del busto della famosa cantante… ricerche che la disciplina dello studioso – e dell’uomo d’ufficio – sconsigliavano poi di riprodurre sulla pagina! In molti casi Felici si avventura in gustosi fuori pista: La morte der Zenatore o Li croscifissi der Venardì-ssanto, vero saggio storico di tre fitte pagine, che tra cronache dell’epoca e aneddoti illumina il lettore sul contesto del sonetto; Li fochetti, in cui il recupero di un’antica tradizione serve al commentatore per mettere in risalto il particolare modo di procedere del Belli, che scompagina i piani temporali o meglio se ne serve liberamente, con l’aiuto dell’editore principe del poeta romano, Giorgio Vigolo, di cui Felici è stato valente studioso. Ma per saggiare la sottigliezza interpretativa e la dottrina che regge questi commenti, basta leggere quello che Felici scrive a proposito di uno dei sonetti più alti e tragici del Belli, Li du’ ggener’umani, in cui l’asse ermeneutico raccorda il più lontano passato medioevale alle più recenti disposizioni ecclesiastiche, costruendo un microsaggio di assoluta levatura. L’acribia documentaria si sposa facilmente con la ricerca erudita come nel caso del commento a La Compaggnia de Santi-petti, o in quello a Santa Filomena, la santa apocrifa, che dal ritratto ilare del Belli rimbalza in quello non meno divertito e divertente di Felici. Miniere di racconti, i suoi commenti spaziano dagli archivi giudiziari, come in La Causa Scesarini, alla narrazione di personaggi come il Michele di Braganza di Don Micchele de la Cantera, la principessa Zinaida Aleksandrovna Belosel’skaja di 3 Gennaio 1835, o l’ambigua figura di un arrivista di nome Lorenzo Mencacci dileggiato in L’anima der Curzoretto apostolico. Si tratta di autentici cammei biografici che attingono sia alle fonti note al Belli, sia ad altre in grado di dare profondità di prospettiva alle maschere messe in scena dal grande poeta romano.
La strada scelta da Felici permette al lettore di muoversi dal testo poetico al commento e viceversa, non solo per esigenze di stretta comprensione e di puntualizzazione linguistica, ma per assaporare, nel più puro spirito letterario della contaminazione, pagine godibili per la verve narrativa, che, come in tante di Benedetto Croce, sanno essere fedeli al referto storico conservando al tempo stesso la felice libertà del racconto. Non è cosa da poco, far rivivere l’oscuro palinsesto a cui attinse il poeta e permetterci di accostarlo con maggiore consapevolezza, senza per questo intimorire con il peso di apparati indigesti. Un’occasione dunque, leggendo Belli in una delle poche grandi imprese editoriali di questi tempi, per leggere le ultime pagine di uno dei petits maîtres che hanno fatto e fanno onore alla cultura italiana.
Bruno Nacci