Nel settembre dello scorso anno è stato pubblicato un volume di notevole interesse, dal titolo IN QUESTO MIO GUSCIO DI FAVOLE, Giorgio Vigolo e il suo tempo, cura di Andrea Gialloreto, Prospero Editore (SCRITTOJO, collana di studi sulla letteratura italiana moderna e contemporanea). Scrittore, filologo, musicologo e traduttore, il nome di Vigolo è rimasto soprattutto legato alla prima e storica edizione critica dei sonetti del Belli in tre volumi per Mondadori (1952); restando a conti fatti ai margini del cosiddetto canone novecentesco per la complessità di una statura artistica cui rendono onore i saggi raccolti nel volume in oggetto. Estremamente significativo a tal proposito il primo di essi, firmato da Lucio Felici (ultimo contributo postumo del grande studioso) e intitolato Un poeta “inattuale”; in quanto, con lucidità, vengono precisati i limiti e i fraintendimenti di letture critiche (per fare due nomi eccellenti) come quelle di G. Contini e G. Debenedetti in merito al Vigolo poeta (sminuito nei termini di esercitazioni calligrafiche e misteriosofie alla Onofri che davvero non rendono giustizia alla composita e incontestabile ispirazione di un autore sospeso tra fulgori barocchi e sobria classicità). Di Giorgio Vigolo, visionario cantore di Roma, mi piace qui riportare una poesia inclusa nell’ultima sua silloge edita da Mondadori nel 1977, I fantasmi di pietra…(a/m):
IL SENSO DELLA MORTE
Il senso della morte alcuni giorni
viene proprio dal cielo;
nuvole enormi, mostri d’uragano
caricano dal Mare
Tirreno tutte le acque del Diluvio
e sospese le tengono per ore
tra Gianicolo e Laterano.
Non cade goccia; l’uragano gira
sul Vaticano solcato di lampi;
ma un vento fresco si leva
a contrasto con lo scirocco,
mantiene la tempesta in bilico
sugli belischi e le chiese.
(poesia di Giorgio Vigolo, dai Fantasmi di pietra, Mondadori, 1977)
Una bella poesia quella di Giorgio Vigolo da te citata, Andrea. Rileggendola, mi sono tornati alla memoria i versi di un’altra composizione dello scrittore romano, nonché musicologo, critico, filologo, dal titolo “La morte si scioglie” compresa nella silloge “Linea della vita” (1949). La condizione di precarietà dell’esistenza -tema comune ad entrambe le liriche- è qui colta con accenti di rassegnato fatalismo, non privi di un fondo di inquietudine tutta moderna per la sorte dell’uomo vanamente proteso nel suo viaggio terreno ad un accordo con l’universo: ” …Eppure chissà’ che senso/ di felicità’ originaria/ si proverà in quel momento/…” Quasi un’ansia cosmica d’abbandono all’anima immensa del tutto, la stessa ansia d’armonia universale espressa da Ungaretti nei “Fiumi”: la morte, come passaggio obbligato per accedere a forme più alte di vita.
Sì, Fiorella, davvero stiamo parlando di un grande scrittore la cui cosmica visionarietà (ben percepibile anche nelle prose) non risulta focalizzata soltanto su Roma. Presenze angeliche e diaboliche visitano sovente le sue pagine nel corso di una lunga esperienza artistica.