Vedi come si erge candido
d’alta neve il Soratte! I boschi al peso
non reggono, fiaccati, e per l’acuto
gelo si sono rappresi i fiumi.
Dissipa il freddo deponendo legna
sul focolare, in abbondanza, e mesci
da un anfora sabina a doppia ansa,
o Taliarco, vino di quattr’anni!
Lascia il resto agli dei, che appena placano
i venti in lotta sulla ribollente
distesa, non più ondeggiano i cipressi
né con essi agitati i vetusti orni.
Cosa accadrà domani, tu non chiedere.
Se un altro giorno ti darà la Sorte,
ascrivilo a guadagno e non spregiare,
ora che sei giovane, le danze e i dolci amori,
mentre è lontano dal tuo verde il tedio
della vecchiaia. Adesso il Campo
e le piazze; ora prima che annotti
si ripeta il lieve sussurro dei convegni,
ora il gradito riso che ti svela
da un angolo segreto ove si celi
la tua fanciulla, e il pegno strappato
dal polso o dal dito che resiste appena.
ORAZIO, Odi I, 9 (tr. Luca Canali)
Di indubbia attualità, l’ode oraziana (libro I Ode IX versi 1-24 ) da te citata, Andrea, in cui si allineano la tradizione latina e quella ellenica: il “mos maiorum” e la strofe alcaica, assume nella prima parte -attraverso la descrizione di un suggestivo paesaggio invernale- un significato simbolico: l’inverno come emblema di tristezza e di vecchiaia, su cui però il poeta sembra voler sorvolare per soffermarsi su un concetto tipicamente epicureo, quello di non rimandare al domani i piaceri della giovinezza (…Non disprezzare i dolci amori, o fanciullo, né le danze, finché sei nel fiore degli anni, lontano dalla canizie scontrosa). Gradevolissima rilettura di Orazio, uno dei più celebri poeti latini, sicuramente il più lirico.
Sì, Fiorella, versi attualissimi e immortali, quelli di Orazio. Un caro saluto