Profonda bellezza del Quintetto per archi in do maggiore op.163 (D 956) di Franz Schubert risalente al 1828, anno della morte del compositore viennese. Non esito ad affermare che occorre un grande silenzio interiore per ascoltare -o riascoltare nel mio caso a distanza di anni- tale poderoso Quintetto: il silenzio, tanto per capirci, che serve per potersi avvicinare agli ultimi quartetti beethoveniani. Nel primo movimento di esso, siamo al cospetto delle “divine lunghezze” schubertiane pienamente in opera, in netta opposizione ai rigorosi e rettilinei sviluppi di Beethoven (di classico valore esegetico l’evocazione del “paesaggio” cangiante riguardo alle succitate lunghezze da parte di Th. W.Adorno); in attesa di raccogliersi davvero nell’ascolto quando si fa strada il secondo movimento, un adagio fatto di trame sottilissime che sembrano domande angosciose e incessanti (movimento amatissimo dal poeta-violinista Giorgio Caproni). Nel terzo movimento ecco sgorgare la proverbiale melodia di Schubert, paragonabile per me soltanto a quella di Mozart in quanto a raffinatezza d’istinto. E si potrebbe continuare a dire. Per concludere qui che soprattutto il suddetto adagio è simbolo delle eterne domande dell’uomo, delle sue preghiere. Mi è tornata in mente a questo proposito mia madre, amante in particolar modo della musica di Beethoven: allorché le capitava di parlarmi di Schubert, quasi non riusciva ad esprimere la sua devozione per la stupenda sinfonia Incompiuta del genio viennese… “L’arte che tutto può”, per dirla con Giuseppe De Robertis, ci fa prendere le distanze dal clangore insopportabile del nostro tempo; e veramente per Schubert che morì trentunenne nel 1828, vale l’esergo da Menandro nella poesia Amore e Morte di Giacomo Leopardi (1832): “Muor giovane colui ch’al cielo è caro”.
Andrea Mariotti
Dall’incomparabile forza melodica, il Quintetto per archi in do maggiore op.163, rappresenta -a mio avviso- una delle composizioni più complesse di Franz Schubert, per varieta’ di temi e ricchezza espressiva. Una musica divina in cui si alternano momenti di pura leggerezza (ricordi, sogni), mature riflessioni, malinconie e inquietudini dello spirito. Una musica divina (“l’arte che tutto puo”) che ci eleva e ci pervade del sentimento di Infinito. Che dire, Andrea, della tua citazione del canto leopardiano “Amore e morte” con l’esergo da Menandro? Pienamente condivisa!
Un caro saluto a te, Fiorella.