A proposito del mito di Apollo e Dafne, a parte lo stupendo marmo del Bernini che ammiriamo in questa fotografia (non mia), come non pensare ai versi ovidiani delle METAMORFOSI (I, 450-567)? Ebbene, con tale mito mi sono misurato nei versi inediti che presento oggi. Versi scritti per guarire oppure per ammalarsi…meglio? Il lettore potrà comunque osservare -nella prima quartina del mio sonetto- due endecasillabi con parole sdrucciole sotto accento di sesta; a suggerire (credo di poter dire) una intonazione non mellificata della composizione. A conti fatti si è trattato, per me, di un infuocato agosto romano nel segno della nostra grande tradizione lirica… il titolo del sonetto, infine, vuole accennare ad una poesia dello scorso anno sullo stesso tema (non pubblicata nel blog). Ma è tempo di presentare i miei versi:
DEJA VU
E’ questo il solo modo di parlarti
senza rischiare d’essere freddato:
ché temo le invincibili tue arti,
gradite un tempo al cuore mio stregato.
Chiaro mi è apparso il gioco delle parti
nel giorno stesso in cui, da te lasciato,
mi ritrovai nel mito, per amarti:
o Dafne che sfuggivi al dìo malato!
i baci miei stampati sul tuo legno
han reso la mia sorte assai grottesca;
destando in te (presumo) quell’affetto
del tutto confacente al tuo ritegno.
Boato, scroscio di saracinesca:
il sisma dell’ Abruzzo nel mio petto.
Andrea Mariotti, poesia inedita del 27 agosto 2010
Mio caro incontenibile amico,
in questo mese d’agosto febbrile e struggente, stai toccando tutte le mie corde emotive. Hai voluto rendere omaggio al canto puro dei sonettisti, nel caso specifico all’Ovidio delle Metamorfosi, che trascinò nel sogno gli anni difficili dello studio imposto. Apollo, il dio della bellezza e dell’amore, ferito al midollo, che insegue la sua Dafne, tesa come arco a proteggere la propria verginità.
In questa tua ‘parafrasi’, che è in realtà completa rivisitazione del mito, ho letto un continuum con il madrigale, non a livello stilistico, ovviamente, ma di contenuto.
La donna resta la protagonista dei tuoi versi. Ambivalente il rapporto con lei, destinato spesso a creare mal d’anima. Ricordo perfettamente la poesia dell’anno scorso alla quale ti riferisci. Cambia l’atmosfera, la scelta del tessuto lirico e… cosa dire del riferimento a Dafne trasformata in tronco, o meglio, in pianta di alloro? Baci quel ‘tronco’, come Apollo baciò la nuova corteccia, sentendo il cuore trepidare anche di fronte al legno. E, al contrario del dio, tu, cantore dell’era moderna, maestro della satira tagliente, della rivoluzione , che coinvolge e sconvolge, non crolli di fronte al gioco delle parti, avverti l’aspetto grottesco del ‘ritegno’ . E ti affranchi dall’emozione d’amore col tonfo sordo di quella saracinesca, che oscura il tremito, in nome del boato reale, che ha scosso la nostra terra, le nostre vite!
La leggenda, nel suo fascino illusorio, cede il testimone al vero. L’uomo che insegue, sogna, trema, ma non si mortifica fino al punto di accontentarsi del cenno d’assenso delle fronde di un albero.
Forse quel tronco crolla nell’impeto imprevidibile del sisma e l’uomo resta malato, sicuramente più solo, ma solido nella sua dignità.
Non so se ho dato la mia personale interpretazione al tuo sonetto, peraltro stilisticamente magnifico, so che mi ha incantata.
Grazie, Andrea, sei davvero un talento raro!
Nel ringraziarti, cara amica, ti rispondo che non posso che rimettermi -in merito ai miei versi- al lettore sensibile e immaginoso (così come viene invocato da Leopardi nello Zibaldone). Tuttavia sono rimasto a mia volta colpito dalla tua fluida interpretazione del sonetto. Col tuo istinto narrativo (che io stimo), devi aver colto nei miei versi uno sviluppo prosastico (di cui riscontro formale è la rima non eufonica in “esca”, nelle terzine); sviluppo che permette all’uomo di tornare coi piedi per terra, e al poeta di non specchiarsi troppo nella musica ammaliante del sonetto, forma poetica stracarica di vibrazioni, ossia di tradizione letteraria. Grazie, insomma, Maria, per aver attestato la modernità di questi miei versi. Andrea
Un flusso
perfetto e perfettamente unitario, il tuo, qui, che non rinvia a nessun “nomos” de-terminato e visibile ma dà spazio alla phantasia, svincolandola e alimentandola “in indefinitum”. Come avrebbe detto Gould “mollement balancés sur l’aile du tourbillon intelligent”. Congratulazioni vivissime, Andrea e…un abbraccio. Mirka
Interessante questo tuo commento, Mirka. Nella consapevolezza crescente, da parte mia, di aver scritto dei versi asciutti e terreni laddove massimo è il pericolo di banalizzare le strutture semantiche del discorso poetico, ovvero nell’ambito del sonetto, con la sua musica codificata e gratificante per i versificatori oziosi. Il nome di Gould che tu da musicista hai fatto, non può che rendere onore ai miei versi, rimanendo il pianista canadese maestro impareggiabile d’una lettura asciutta e non romantica di Bach (sorgente d’armonia per eccellenza). Un abbraccio. Andrea
Mio caro Andrea,
il tuo sonetto imperniato sul mito di Apollo e Dafne mi riconduce ad alcune letture sulle teorie del Vico – condotte in seno alle “Metamorfosi” – inerenti l’importanza filosofica della metafora e la funzione benefica che quest’ultima rappresenta per l’umana specie.
Nel mutamento che tu prendi di mira (Dafne che si tramuta in pianta d’alloro), inconsciamente Ovidio vergando “… et quoniam coniunx mea non potes esse, arbor eris certe mea…” conferisce all’arbusto sempreverde un simbolo che oltrepassa i confini della sensualità assumendo l’alto valore sociale che ancor oggi gli è universalmente riconosciuto (… Semper habebunt te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae; tu ducibus Latiis aderis, cum laeta Triumphum vox canet et visent longas Capitolia pompas…).
Comprenderai quindi il mio benevolo e giocondo stupore nel gustare la tua “grottesca” (quanto suggestiva e dilettevole) interpretazione del mitico episodio traslato: il disvelarsi del “gioco delle parti”, la fuga da un “Dio malato”, i baci “stampati” sul legno…
E che dire delle eccitanti, dirompenti e persuasive immagini che illuminano i due versi finali?
Sei riuscito ad inserire nel mito – come splendidi cammei – due “voci” del nostro tempo: il metallico e innocuo rumoreggiare della saracinesca e il lugubre, rovinoso tuono del terremoto aquilano.
Solo un cantore che sfiora l’anima di miti e leggende riesce a sfoggiare sfavillanti alchimie!
Continua a sorprenderci con le tue fantasie che si immergono nei mondi fatati.
E… componi SONETTI, mi raccomando!
Facciamo sventolare alta la bandiera dei quattordici versi!
Roberto.
Caro Roberto, sono contento di avere suscitato in te, accorto frequentatore della nostra tradizione letteraria, quello che in sintesi si può definire il piacere del testo, nel confronto non facile col mito di Apollo e Dafne. Devi sapere che proprio in questi giorni sto leggendo nei Meridiani la raccolta in gran parte inedita di sonetti di Pier Paolo Pasolini intitolata dall’autore L’ hobby del sonetto (1971-73); raccolta nella quale la forma per eccellenza della nostra tradizione poetica viene stravolta da versi sovente ipermetri, da rime “visive” in luogo di quelle canoniche ecc. Bene, ti confesserò che pur amando moltissimo Pasolini, la sua colta “sprezzatura” nei riguardi della nostra letteratura (coeva più che passata, coi risultati raggiunti nelle dirompenti Ceneri di Gramsci, tanto per intenderci); dicevo, riconosciuto tutto questo, non posso non esprimere qui le mie riserve e in qualche modo il mio rimpianto per quello che Pasolini ha trascurato di attuare, nella suddetta inedita raccolta: in breve, l’immersione nella metrica canonica del sonetto. A mio modesto avviso, ciò gli avrebbe arrecato quella consolazione in chiave sensistica così come viene teorizzata da Giacomo Leopardi nello Zibaldone (alludo alle pagine inerenti alla teoria del piacere, luglio 1820), teoria poi coerentemente “applicata” lungo tutto il corso della propria esperienza poetica, da parte del grande Recanatese (nei termini, rigorosamente immanenti, di un piacere del canto che non affranca dal male di vivere). Ebbene, tornando a Pasolini, non possiamo dimenticare ovviamente il suo proteiforme ingegno, tale da portarlo a firmare notevoli opere cinematografiche, nel contesto di quel suo cinema di poesia (come lo stesso scrittore e regista lo aveva definito). In conclusione, nel Pasolini che nel 1971 affronta quasi diaristicamente il sonetto, si avverte la fretta, la distrazione quasi, di un talento impegnato su più fronti; laddove il sonetto richiede applicazione e osservanza dei suoi tempi, per farne poi -nel rispetto della sua squisita eleganza- qualcosa di attuale e significativo per il lettore. Osservo ciò avendo caro l’incipit dell’orazione di Moravia in morte dell’amico Pasolini: “Abbiamo perduto prima di tutto un poeta!”. Sicché noi, Roberto, privi del tumultuoso e polivalente talento pasoliniano, poeti quali semplicemente siamo, procediamo per la nostra strada, cercando cioè di “spremere” ancora poesia dalle maglie abbaglianti delle grandi forme letterarie del passato; evitando, per quanto ci è possibile, di riuscire sterili versificatori al ribasso. Un carissimo saluto e un ringraziamento per il tuo colto commento. Andrea
N.B. E’ opportuno precisare che nei Canti di Giacomo Leopardi non troviamo dei sonetti. Tuttavia il titolo del libro rimanda com’è noto a quell’intento filosofico-estetico dell’autore, cui ho fatto cenno nel rispondere all’amico Roberto. Non sono stati pochi, in ogni caso, gli studiosi e lettori che hanno ravvisato, nell’Infinito, una sorta di sonetto dissimulato (stiamo qui parlando della lirica forse più importante della nostra modernità poetica, considerando la sua forza liberatoria -in endecasillabi sciolti e canonici- nei riguardi del “respiro” della poesia; e, guarda caso alimentata -tale forza- dal sentimento della classicità, così intenso nel rivoluzionario Leopardi del 1819, anno di composizione dell’Infinito).
Caro Andrea,
finalmente ti ritrovo, dopo l’avventura poetica del Madrigale, in cui ti sei cimentato con un genere a te estraneo, sebbene con un risultato più che lusinghiero, con intatta l’ironia pungente che già avevo ammirato, e gustato, nella silloge “Spento di sirena l’urlo”, che ho avuto il piacere di commentare. Intatta l’amarezza che si copre col sorriso, intatto il gusto del paradosso, intatta l’armonia, la musica di una composizione stilisticamente ineccepibile, aderente alle regole e nuova, mirabilmente nuova nei contenuti, che non stonano, anzi, rinnovano la tradizione. Ci sei tu in questo sonetto, con le tue delusioni e i rimpianti, ma questa volta svelati, aperti agli altri, in modo quasi crudele, come sei solito fare, senza schermi né falsità. Ci sei tu, con la tua carica umana, col tuo amore (deluso?) per la vita e… per l’amore, con il tuo desiderio di perfezione, che non è di questo mondo. E così il tuo “Deja vu” tocca le corde dell’emozione con intensità e con suggestioni profonde, persino con quel sorriso che pirandellianamente serve a mascherare la sofferenza. Come deve fare la vera poesia.
Bravo, caro amico, continua ad offrici le tue liriche, anche se fossero dei “deja vu” (e non lo sono affatto). Con affetto
Rina
Cara Rina, il tuo autorevole commento mi procura gioia. Non posso non ammettere di avere avuto coscienza immediata del valore dei miei versi: ma che sia tu, esattamente tu a certificare la novità semantica del sonetto pur nel rispetto delle regole ad esso sottese, ecco, questa è una cosa che incoraggia ulteriormente il mio lavoro di poeta: amante della tradizione ma appartenente al mio tempo (e non potrebbe essere diversamente!). Con stima e affetto
Andrea