“La ferita del possibile” di Sabino Caronia
È un Canzoniere sentimentale la nuova raccolta poetica dell’autore romano, giocata in “rime chiare, non consolatorie, fra citazioni, calchi, eserghi. Versi come cicatrici di ferite inferte da spine anche banali, nel metaforico inverno del suo (e del nostro) “scontento”. Tra tradizione e memoria
Ventimila leghe sotto i mari inesausti del petrarchismo, anche sommossi e rapiti da un fondale moderno, chiamano Sabino Caronia a una militanza ardita e maliarda, perigliosa e squisita, della Maniera come forma mentis; alta e smagliante, impulso stesso creativo. Inarginabile Canzoniere sentimentale, “alla maniera di” «Altera ti rivedo, altera e bella, / passare, così passano le stelle. / Sì, ti rivedo, sì, rivedo ancora / quel tuo chiaro freddissimo sorriso». Sino al vero e nudo pertugio sensibile, direi al cedimento struggente della Grazia: alla smagliatura di un verso proprio, ineludibile e quindi inoppugnabile, come cicatrice d’una ferita che non somiglia a nessun’altra, e quindi riazzera il tutto: tradizione e memoria, un’eredità che ci chiama finalmente alla nudità, alla cruda impellente identità… «… Io per te sono vivo e di te sola / scapigliata poesia soltanto vivo».
Amico di lungo corso, nostro e della poesia, ancora oggi, in queste ultime stagioni, o metaforico inverno del suo, spesso anche nostro scontento, Sabino Caronia recita così dolci, piccole nugae o sonetti di un eterno, trasparente anniversario, scritti in foglietti sempre più piccoli e spiegazzati, con grafia sempre più minuta, a tratti indecifrabile – ma per vertigine cara, nascondimento inconscio e battesimo (officia Luzi imperituro) dei nostri frammenti… «Ho promesso alla rosa che tenevi / come un piccolo cuore tra le dita / quella sera che andando sorridevi / da un altro tempo a me, da un’altra vita». Poi “Sabi” scappa via, dietro appuntamenti improbabili o forse inesistenti, alibi sublimanti, come avesse appena dichiarato eterno amore all’Attimo Fuggente («La storia umana è l’attimo che fugge»), amicizia eroica a tutti i Poeti Estinti inestinguibili, arroccati in confraternita: proponendosi come hidalgo ideale d’ogni Poema Senza Eroe… «Deserta Andalusia che il cuore pungi / come pensiero di donna lontana, / io lo so che non più di cavalieri / erranti è tempo e di perduti amori, / perciò fuggo le lunghe strade rosse / che vanno dritte verso nessun dove». Ma non è un poemetto apocrifo: né della Anna Achmatova, né di Boris Pasternak… È semplicemente l’ultima raccolta di Sabino Caronia, che suona, vale insieme come referto, e vaccino, antidoto avverso La ferita del possibile (Iride-Rubbettino, pagine 96, 10 euro) – titolo che pulsa già una poetica, forse una già risolta, antica e infantile malattia esantematica…
Sabino gioca “rime chiare, in –are” (ma caproniane, urticanti – tutt’altro che consolatorie, per sua e nostra fortuna!): e presto trova il buio che ci protegge, ci salva come si salva il seme sotto la neve. Si nasconde elegante fra citazioni, calchi, eserghi, epigrafi, echeggiamenti à la manière de… E lascia nel buio i bianchi sassi di Pollicino, parole cioè che nessun animaletto amico della notte potrà beccare, rubare via come semplici, casuali mollichine di pane… L’alba lo trova ancora dentro il bosco – di sogni e archetipi – già quasi uscito: e laggiù c’è la sua casa… Il ’900 forse dov’è nato e cresciuto, tutti quegli scuri e cari scaffali dove i poeti si danno appunto convegno, certo di notte, quando tutto è spento: computer, emittenti, siti, social network, forum e community… E sono svegli e fertilissimi, ecco, solo i sogni, i versi trasognati o le alchimie verbali, salmodiate d’anima, abbacinanti come elfi, gnomi o spiritelli stessi del desiderio. Lari e Penati, dicevano i latini, che divinizzavano tutto: familiari e filosofi, doctae puellae e accese virago d’Eros, aedi ciechi e guerrieri dello scibile. «Tutto mi manca quando tu mi manchi, / ogni umana, celeste compagnia, / io non voglio guarire, io solo cerco / per me le rose di maggio in dicembre».
Vorrei dire a Sabino che a un certo punto mi è giunta schietta, naturale, la voglia matta di riaprire vecchi libri di scuola ancora annebbiati, addormentati d’oro, e tornare a certi passi preziosi, mai leziosi dello Stilnovo: quando Dante e Cino e Guido e altri sodali (“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento”), inseguivano amori e grandi afflati nei pochi versi d’un sonetto, due quartine due terzine, quattordici scalini, forse, per salire al cielo, un piano dopo l’altro, dal rosa all’azzurro. «Così chiedi e una voce in te sussurra: / “Non l’orizzonte è azzurro ed i profili / familiari dei monti e non è azzurra // la gioventù, l’amore o la speranza / la pargoletta gioia o i puerili / sogni del cuore: azzurra è la distanza”».
Forse per questo ho riaperto, direi ho sfasciato, medicato e rifasciato, questa volta, amico mai spazientito, la ferita di Sabi, in cicatrice di tutto il suo possibile, fasciato a garza di languori, divinando i colori, riannotandoli, riannodandoli… Sono le gemme, le sue gioie più vere, dimentiche e perdute – sassi d’onice, lapislazzuli, schegge di perle e frammenti di porpora per farne tavolozza d’anima, dizionario dei sensi: quando sognano, pregano, e poi svolano. Svolano eterni e fugaci, dall’innamoramento all’autoironia («per te ho pianto e gridato di dolore, / ma tu purtroppo avevi altro da fare».). Spine banali, a ferirlo, desublimarlo di bellezza. Ma anche eleggerlo, al contempo, giardiniere e giardino. Nessuno si senta escluso: potatore incantato, innesto metafisico.
Plinio Perilli
http://www.succedeoggi.it/2017/05/le-rose-di-dicembre/ (12 maggio 2017)