PATATE E FIELE

 

La Caporetto nefasta e idealista

del Sottotenente Carlo Emilio Gadda…

 

 

 

 

Le melanconiche e tragiche gesta della disfatta di Caporetto sono fin troppo note, e quegli antichi dispacci e quelle atroci cronache di guerra – che oggi hanno cento anni – cercano semmai un’eco ben diversa e più nobile (a suo modo anche più misteriosa e sorprendente), proprio dalle vicissitudini creative della poesia e dagli incunaboli del romanzo, che non dalle pedisseque relazioni, o dai verbali impettiti e avulsi delle maiuscole, anche inette, omertose Istituzioni politiche e militari…

All’alba del 24 ottobre 1917, il Generale in capo Luigi Cadorna, nella sede del Comando Supremo di Udine, venne informato del pesante bombardamento sulla linea Plezzo-Tolmino… Fedele alle sue convinzioni, il generale la ritenne una simulazione per distogliere l’attenzione dal fronte carsico…    Contemporaneamente, sul monte Krasij a nord di Caporetto, si trovava la terza linea difensiva formata da alcuni battaglioni alpini, tra cui quello comandato dal Sottotenente Carlo Emilio Gadda, già dal 1915 fervido volontario interventista. Lui e i suoi uomini furono svegliati alle due del mattino dai bombardamenti massicci che proseguirono fino all’alba. Non subendo però alcun attacco e non ricevendo alcun ordine, rimasero nelle loro posizioni, isolati e completamente avvolti nella nebbia.

Verso le 12 videro alcuni soldati italiani inseguiti da quelli austro-germanici e, alle 15, udirono le esplosioni dei ponti sull’Isonzo. Capirono quindi di essere bloccati ed attesero con rassegnazione l’attacco nemico.

 

Vari anni dopo, nel ’32, il grande poeta dialettale milanese Delio Tessa evocherà quell’atmosfera nefasta nel suo aspro, denso poemetto “L’è el dì di Mort, alegher” (“È il giorno dei Morti, allegri!”): in cui si parte dal parallelo della celebrazione laica e un po’ edonistica della ricorrenza dei Morti (con le “scampagnate” al cimitero e i dolcetti), con la disfatta di Caporetto del ’17, durante la Grande Guerra – e l’emblema della Morte come inevitabile sconfitta sull’esistenza – per arrivare alla consapevolezza della caducità e della sostanziale insipienza della vita…

Un “Peso” ineludibile e certo invincibile, che già l’Ungaretti de L’Allegria aveva risolto con la pietas e la laica fede in una poesia non più aulica – per fortuna – ma creaturale:

 

Quel contadino

si affida alla medaglia

di Sant’Antonio

e va leggero

 

Ma ben sola e ben nuda

senza miraggio

porto la mia anima

 

(Mariano il 29 giugno 1916)

 

 

Vicenda tra le più enigmatiche e anche significative di quei durissimi anni di guerra, e forse di tutta l’ancor giovane storia dell’Italia Unita (che aveva da poco superato il suo primo mezzo secolo, organizzando nel 1911, a Roma, nell’incanto di Valle Giulia, una pomposa Esposizione Artistica Universale – fra il Liberty e il déco – nonché assalendo e conquistando baldanzosamente la Libia, il posto al sole, lo scatolone di sabbia, nella perfetta, magnanima retorica ufficiale – pascoliana, ahilui – de “La grande proletaria si è mossa”…), la ritirata tragica di Caporetto sino al riposizionamento – questo sì, eroico – sulla nuova, quasi sacra linea del Piave, dètta ad alcuni scrittori italiani fieri della loro divisa pagine non facilmente dimenticabili, e l’occasione di una profonda analisi insieme pubblica e privata.

Penso a certi libri giovanili di Mario Puccini, dello stesso Malaparte, e soprattutto al Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda, ivi compreso quel “Diario di Caporetto” (Garzanti, Gli Elefanti, Milano, 2002) che ci racconta le meditazioni tristissime del Ten. “Gaddus” – così amava firmarsi –  reboante e pignolo come sempre, anzi come non mai, spaventato dalla Storia e refrattario quant’altri mai alla penosa e susseguente prigionia, in mano agli austriaci, tronfî e quasi sempre impietosi, vendicativi…

 

Caporetto – “Note sulla ritirata di un fante della III Armata” (Editrice Goriziana, 1987: ristampa a cura di Francesco De Nicola della prima edizione, uscita a Firenze, da Bemporad, nel 1918, di “Dal Carso al Piave”), è un libro fervido ed umile di Mario Puccini, in chiara, gloriosa e limpida area “vociana”, cioè a dire fiore e frutto di una poetica dolce, immediata, candidamente populista (un po’ alla Jahier e alla Slataper)… Non dimentichiamo anche che Giuseppe Ungaretti, soldato semplice e uomo di pena, proprio in quegli stessi anni, ed in trincea sul Carso (Il porto sepolto uscì nel 1916), stava cambiando le sorti, i modi e gli esiti della grande e schietta nuova poesia italiana: “Di che reggimento siete / fratelli?”…

Leggiamone solo un brano, della prosa fervida e dolente di Puccini; memorabile come un breve racconto tolstojano, l’agonia del povero soldato meridionale, orgoglioso e patriota usque ad mortem:

 

“… Uno dei feriti, che abbiamo raccolto al bivio di Gonar, è moribondo.

La colonna si arresta, tutti si scoprono. Questa morte, a mezzo la ritirata, e mentre si ignora la sorte di quelli che difendono il grosso dell’Armata, è quanto mai tragica.

Non s’ode un colpo di cannone. Sul cielo, ormai quasi terso, non un rombo d’aeroplano, che dica: siete guardati e protetti, avanti, con ordine e con fede.

Il soldato che muore, ha la barba incolta, i baffi spioventi. Non ha numero sul berretto, le sue scarpe sono senza stringhe, la giacca è scucita.

È un meridionale.

Poco prima di morire (un cappellano gli umetta le labbra col cognac e gli suggerisce le ultime preghiere) egli apre le labbra e mormora:

‘Non seppellitemi qui. Non mi lasciate agli austriaci!’.  …”

 

Ben altra forza polemica e provocazione avrà, nel 1919, La rivolta dei santi maledetti, primo libro del giovin “pratese” Kart Erich Suckert, classe 1898, che solo dal ’25 inizierà a farsi chiamare Curzio Malaparte, e che affida a questo pamphlet una virulenza epocale di rara, allarmante bellezza… Certo, come scriverà nel ’55 in Due anni di battibecco, che tutte o quasi…

 

“… le vicende della vita italiana negli ultimi quarant’anni nascono dalla dolorosa esperienza di quella guerra: e soprattutto dalla scoperta che v’erano e vi sono, due Italie. L’Italia dei codini, dei bigotti, degli sbirri, dei ladri, degli Alti Comandi (e per Alti Comandi non intendo solo quelli militari), di tutti coloro che disprezzano il popolo italiano, lo sfruttano, l’opprimono, l’umiliano, l’ingannano, lo tradiscono, quella ignobile Italia che la mia generazione, e tutte le generazioni del Carso e del Piave, hanno rifiutato e rifiutano. E l’Italia della fanteria, l’Italia della povera gente, l’Italia generosa, leale, onesta, coraggiosa, nemica d’ogni prepotenza, d’ogni sopruso, d’ogni privilegio, nella quale abbiamo creduto e crediamo. “…

 

 

E qui, dobbiamo dirlo, il cambio di prospettiva è abbastanza netto: e non c’è spazio per accondiscendenze creaturali o cerimonie consolatorie, o peggio melanconici, effusi riti encomiastici – in uno scrittore che fin da giovane inseguiva lo scandalo, l’effettismo straripante e la controretorica sommuovente come aggressiva, impulsiva dichiarazione di poetica e unica unità di misura, più esplosiva degli shrapnels degli austriaci…

 

“… La retorica celebrazione della ritirata di Caporetto come ‘fenomeno schiettamente sociale’ e clamorosamente eversivo,” – annota Gianni Grana nella sua agile monografia su Malaparte – “non viene solo a proporre uno stravagante capovolgimento dei giudizi correnti su uno dei drammi più oscuri della nostra guerra, ma tenta anche una apertura di orizzonti, una comprensione meno superficiale della storia civile del nostro Paese, delle virtù e dei vizi storici del nostro popolo. Colpisce, fino a un certo punto, nel Suckert la prospettiva ‘democratica’ e lo schema classista, si direbbe gramsciano, applicato allo sfortunato episodio militare. (…)

Caporetto è la rivolta di questo proletariato in guerra, dopo le delusioni per le carenze degli ordinamenti e le colpe dei capi, il disgusto di una nazione ‘matrigna’ che ‘continua a vivere la sua grassa vita’ lontana dalle trincee e perciò ancorata sempre alla ‘vecchia concezione della bella morte e dell’atto eroico‘… Caporetto è l’espressione di questo abisso morale, scavato poco a poco dal disinganno e dal malcontento, dalla stanchezza e dall’insofferenza, da una ‘profonda indignazione sociale’, tra il popolo sacrificato e la nazione declamante al riparo delle ‘comodissime città dell’interno’; è il frutto di una insorta coscienza e mentalità ‘antiborghese e antiretorica’.”…

 

*******

 

Ma il fulcro più ghiotto e certo anche più intenso (misterico?) della nostra analisi, oggi torna su quel Diario gaddiano, alla ricerca forse di un unico destino, insieme creativo e caratteriale… Non era ancora uno scrittore di ruolo, Carlo Emilio Gadda (Milano, 1893 – Roma, 1973) – grandissimo come presto diventerà – e neanche si poteva ancora fregiare del titolo e della laurea d’Ingegnere… (cosa che accadde precisamente nel 1920).

Figlio, lo sappiamo, di un piccolo industriale della seta assai dissestato, e di una insegnante di Belle Lettere, come si diceva allora, si iscrisse al Politecnico, ma presto poi, nel ’15, partì volontario per il fronte; dove peraltro conobbe due figure abbastanza rilevanti del nostro primo mezzo secolo: Bonaventura Tecchi, viterbese ma romano d’adozione, romanziere e germanista, ed Ugo Betti, maceratese, futuro giudice e presto anche grande drammaturgo, con cui condivise i mesi tristi, freddi e laceri della prigionia…

Beh, non stupisce che la prima vera prova letteraria di Gadda sarebbe poi in effetti stata, nel ’27, una sorta di dissertazione filosofico-letteraria, l’Apologia manzoniana (Solaria”, II, 1: erano gli anni in cui realmente “Il Gran Lombardo” esercitava e lavorava come Ingegnere, in giro per mezzo mondo, Argentina compresa)… L’incipit infatti del “Giornale di Campagna”, datato Edolo di Valle Camonica, 24 agosto 1915, è già sinuosa prova o prosa manzoniana, dove anche la Natura sembra avere un suo preciso ruolo o sfondo etico…

 

” Le note che prendo a redigere sono stese addirittura in buona copia, come vien viene, con quei mezzi lessigrafici e grammaticali e stilistici che mi avanzeranno dopo la sveglia antelucana, le istruzioni, le marce, i pasti copiosi, il vino e il caffè. Scrivo sul tavolino incomodo della mia stanza, all’albergo Derna, verso le una e mezza pomeridiana. Le imposte chiuse e i vetri aperti mi lasciano entrare l’aria fresca e quasi fredda della montagna, i rumori dei trasporti e le voci della gente: mi impediscono la veduta di un muro, che si trova a due o tre metri in faccia e in cui non figurano che finestre chiuse, e delle rocce del Baitone. – ”

 

Oh, l’aria fresca e quasi fredda della montagna, registrata ed evocata in quei giorni, con empito pressoché turistico, dal bell’albergo azzimato di ufficialetto borghese (che infatti vi risiedeva comodamente), doveva nel giro di un paio d’anni – A.D. 1917 – tramutarsi nella terribile cronaca di quell’Ottobre nefasto, in cui il nome appunto di Caporetto giungerà a dilaniare ogni ottimismo guerresco, patriottico, e conclamare semmai il senso della disfatta più totale, e della ritirata vorremmo dire cosmica, assoluta: CAPORETTO.

Ecco gli appunti straziati di quell’ennesima battaglia dell’Isonzo (la dodicesima), e questa volta in un ottuso, inebetito equilibrio tra volizione retorica e realtà cupa, sorte rapace e ineludibile…

 

” Cap. 27. Mandai Sassella a prendere il 2° sacco a pelo, che m’aveva portato giù la sera con la corvée del rancio e che aveva lasciato in caverna di Cola. – Poco dopo egli tornò con un altro, recandomi l’ordine di ritirarmi dalla posizione, il più presto possibile. – Quest’ordine mi fulminò, mi stordì: ricordo che la mia mente fu come percossa da un’idea come una scena e riempita da un lampo: ‘Lasciare il Monte Nero!’; questa mitica rupe, costata tanto, e presso lei il Wrata, il Vrsic; lasciare, ritirarsi; dopo due anni di sangue.

Attraversai un momento di stupore demenziale, di accoramento che m’annientò. Ma Sassella incalzava: ‘ Signor tenente bisogna far presto, ha detto il tenente Cola di far presto’, e incitò poi per conto suo gli altri soldati. Mi riscossi: credo non esser stato dissimile dai cadaveri che la notte sola copriva. Diedi l’ordine a Remondino, il vecchio alpino piemontese (cl. 90 o 91) che rimase pure percosso, addolorato ‘Ma qui c’è qualche tradimento’ esclamò, ‘ma non è possibile’. Poi andai nell’altra caverna e pur là diedi l’ordine. – “…

 

Uno scrittore è tale, o presto lo diventa, per la scelta ardua e nobile delle immagini, delle “sequenze” fermate e raccontate (quasi girate, come provvido, lievitante materiale cinematografico)…Gadda ci dona a questo punto una pagina – al di là dell’inettitudine in uniforme dell’Esercito – una vera, prosaica  innologia sui poveri muli, così cari agli alpini, e utili, anzi indispensabili, che sembra presa da una divagazione, umbratile e pastosa, del romanziere che sarà:

 

“… La colonna dei muli, preziosi e insostituibili strumenti nella nostra guerra da montagna, quasi cari compagni di pericoli e disagi per l’artigl. da montagna e le compagnie mitragliatrici alpine, fu un nuovo doloroso colpo per me. Pensavo che nella notte fossero in gran parte salvi, invece no: valutando a più di cinque km.la strada fittamente occupata dalla loro colonna, e m. 2,5 il posto d’ogni quadrupede, calcolai che duemila animali e più fossero gli abbandonati: la nera fila spiccava lungo il parapetto della strada. Ricorderò sempre anche questo particolare che si aggiunse al mio dolore.

E avanti, avanti, già stanchi, sperando ancora, ma fra la crescente preoccupazione. Così venimmo nei prati che, a destra del detto torrente, dove esso sbocca stanno tra l’Isonzo e le colline antistanti al Krasji. – Qui soldati a frotte, che andavano e venivano: chi si dirigeva a Ternova, chi ne tornava o pareva tornarne. Muli liberi e accompagnati che girovagavano; qualche fucile, delle selle. – (La ricerca affannosa e la realtà senza scampo).”…

 

Ma non finisce qui. Torniamo sul senso insieme fatale e terribile della Natura (essendo lui anche un filosofo, vorremmo aggiungere, chiosare: Natura naturans e naturata)… Con quell’Isonzo mugghiante e adirato come una divinità omerica (il fiume Xanto, che poteva assumere forma umana, e pregò Achille di non gettar più cadaveri nelle sue acque!), anzi addirittura ancestrale…

 

“… Così mi apparve la 2ª volta il bellissimo ponte che, ammirando, valicai pochi giorni prima con un soddisfacimento estetico e sentimentale intensissimo. L’Isonzo mugghiava sotto, nel letto profondo. – Poco avanti v’erano sparse sulla strada delle cassette di ufficiali, dei viveri, delle botti, preda ormai dei tedeschi. – Al bivio, dove un ramo va a Caporetto, un altro prosegue a sinistra, costeggiando il fiume, ci fermammo un momento. Un soldato nostro ubriaco spillava vino da una botte aperta e il cui contenuto era in parte uscito ad arrossare il polverone della strada. Soldati nostri si chiamavano al festino; non ostante gli urli e le minacce delle sentinelle tedesche; dei tedeschi era ormai tutta quella roba. Perciò pregai Sassella di riempirmi di vino la borraccia e ne bevvi avidamente alcuni sorsi. “…

 

Annotazione che sarebbe fredda e in qualche modo burocratica se poi non liberasse aneddoti estrosi, bislacchi o perfino famelici… Ad esempio, raccontando lo scenario sconvolto di Caporetto paese, quello sulle due prostitute da campo (cocottes – le chiama Gaddus, con squisitezza insieme gozzaniana e “crepuscolare” in fieri)…

 

“… All’entrata del paese, e anche nelle case, muli morti e cadaveri (uno d’un ufficiale in una casa) asfissiati gli uni e gli altri: qualcuno in atto di estrarre la maschera. Nei prati pozze di granate (ricordo una da 305), ma in complesso non come a Magnaboschi, e tanto meno sul Faiti. Gli è che quelle granate arrivarono addosso a gente non avvezza (chauffeurs, borghesi, comandi) e cariche di gas asfissianti, producendo più panico che danno. Due cocottes piene di sifilide e di sguaiato servilismo pregarono De Candido di raccomandarle a ufficiali tedeschi. Cola e lui chiesero quale fosse la loro sorte e si fermarono a chiacchierare: io impaziente feci loro premura e proseguimmo. Ricordo le sfacciate parole della più piccola delle due svergognate: ‘Per noi italiani o tedeschi fanno lo stesso!’, dette con allegria. “…

 

*******

 

La prigionia acerrima del Sottotenente Carlo Emilio Gadda trascorre così, insieme eroica e maldestra, appassionata e futile, dramatica e ridicola, da perfetto alter ego di Se Stesso, cioè a dire: umbratile, trasparente protagonista della propria stessa, incipiente romanzerìa… La Caporetto, immaginiamola visionariamente così, di un Don Gonzalo Pirobutirro d’Eltino (parliamo del futuro, ma già immanente protagonista, hidalgo-ingegnere, de La cognizione del dolore)…

La fameFAME, le “cartoline da casa” (meglio ancora i pacchi e pacchetti, che arrivavano, grazie alla Croce Rossa, mesi dopo), i suoi continui elenchi, elenchetti, addirittura gli schizzi, i disegni, gli appunti visivi ed esistenziali da pantagruelico ma anche disperato (affamato) Ufficiale di cucina, che chiama e segna “la forza” – fa continuamente l’appello, ideale o nominale, anche fra le povere, disastrate camerate (ci si passi la rima baciata) di un campaccio di prigionia:

 

“… Rastatt; Friedrichsfeste; 16 gennaio 1918. ore 11. – Sono dunque ufficiale di cucina. Lavoro enorme; sonno insufficiente (da mezzanotte alle cinque oggi) ma la fame è saziata. A ogni distribuzione di sbobba è una battaglia che bisogna impegnare coi rappresentanti delle varie camerate. – Disturbi intestinali, provocati dal freddo, dalla mancanza di calze, dall’aver sempre le scarpe rotte e i piedi bagnati. “…

 

Patate e fiele, ecco la formula infausta, l’imprecazione, la deriva e la maledizione quotidiana (così come sbobba è forse la parola più frequente e più usata, biascicata, di tutto questo diario – anche più della categoria luttuosa, e vorremmo dire biblica, della condanna al Dolore)…

Insomma una Caporetto – quella del Sottotenente Carlo Emilio Gadda – nefasta e idealista, lancinantemente epocale e tragicomica, un po’ nevrastenica e controretorica…

 

” Rastatt, 24 febbraio 1918. –

Nessuna lettera, nessun pacco in questi giorni. Giorni di tetraggine e talora di disperazione. La fame è sempre saziata, ma a qual prezzo! A prezzo di noie continue, di lavoro, di rabbia: tra un dolore e l’altro. Si può dire che mangio patate e fiele. Mi sento orribilmente solo nella orribile folla dei compagni: non compagni, ma quasi nemici. E la visione della miseria futura mi spaventa. – Anche fisicamente non sto molto bene: un po’ di debolezza cardiaca, provocata dalla vita continuamente umida, tra il vapore e il caldo delle marmitte. – ”

 

Il grande scrittore in nuce, ripetiamo, qui annida e si prepara nelle annotazioni e negli aneddoti più eclatanti, espressionisti, madornali, chicche e guizzi alla Rabelais… Che in qualche modo profetizzano, in poche righe, interi squarci di futuri racconti, di romanzi insieme deliziosi e orrifici, ineludibili e allo stesso modo improbabili…

Quello sul Natale di Roma, a pochi mesi da Caporetto, nel Celle-Lager, Offiziergefangenenlager di Hannover, ci sembra già pagina degna insieme del futuro autore sia del Pasticciaccio che de La Cognizione del Dolore (certo il suo vertice assoluto: perfetta – e non finita – elaborazione, pulsione romanzesca dopo la morte della Madre, figura per lui doppiamente essenziale).

 

“… Celle-Lager, 22 aprile 1918. –

Ieri Natale di Roma, ricordato con una adunanza tra i prigionieri romani e laziali del Blocco A nel pomeriggio; discorso (criticato da Tecchi) e bicchierata. Io non ero presente, perché non romano, ma vi partecipai col cuore, mandando il saluto del figlio senza scarpe alla Madre lontana ed augusta ed eterna. – La sera, anche al nostro blocco, un commosso discorso del capitano Casella. – Poi suono di inni patriottici, fra gli ufficiali plaudenti all’impiedi, a capo scoperto. Si gridò ‘viva l’Italia’ e io gridai commosso. – Poi piccolo trattenimento musicale, con qualche macchietta si distingue come discreto macchiettista il tenente Lorigiola. “…

 

Ma in tutto questo diario di guerra e poi di prigionia, la Madre era in fondo l’Italia, e Italia la sorella (Clara), Italia anche il fratello Enrico – l’aviatore, morto da eroe, e immensamente rimpianto: in un’Italia oltretutto che gli eroi li dimentica, li sommerge, mentre poi orribilmente osa salvare i beceri, gli inetti, i paria, i furbi d’ogni Caporetto – ma attenzione: non quelli clamorosamente ribelli, i disertori, i “santi maledetti” che furono fucilati e decimati a iosa…

Altro buco nero che l’Italia fece, fa sempre presto a rimuovere… così come le colpe degli Infelici Tanti, e forse anche i meriti dei Felici Pochi (che poi erano e furono – in realtà – infelicissimi allo stesso modo)…In un film da fare, tra tanti anche girati, gigioneggiati nella falsariga d’una fatale, infausta commedia (La Grande Guerra di Monicelli) o restituiti all’historico dramma (Uomini contro di Francesco Rosi, da Un anno sul’altipiano di Emilio Lussu)… E dove ci sarebbe stato posto anche per la macchietta, il macchiettismo italico, la scherzosa amaritudine (questa sì, gaddiana ante litteram) del Tenente Lorigiola… E in verità tutta la pantomima patriottarda del festeggiamento del “Natale di Roma” del 1918 (41 anni prima di Un maledetto imbroglio, tra humour e tragedia, che Germi trasse da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana)…

Una scenetta più carducciana, diciamolo, che dannunziana (l’Imaginifico, nonché oramai Orbo Veggente – dopo il noto incidente aviatorio che gli costò un occhio, e nei mesi di dura, accecata convalescenza, gl’ispirò la splendida prosa lirica e i cartigli del Notturno – dal 1 novembre 1917 al 12 maggio 1918 pronunciò una serie di discorsi poi raccolti sotto il titolo La Riscossa)…

 

“… E davvero adesso gl’imboscati fanno da eroi reduci, e gli eroi sono morti: e io sono così atrocemente solo, perché il mio fratello più forte e bravo ed intelligente di me, il solo che poteva assistermi un po’ nella vita, non è più con me. –

Noterò dunque qualche cosa alla meglio, raggruppando per argomenti e preponendo volta per volta la data del giorno in cui scriverò. Molte cose non potrò esprimere con l’intensità che vorrei, perché il dolore prostra, vuota, abbrutisce, distrugge, come dell’acido solforico versato sull’anima. Non resta più niente, se non la faccia della morte, che vorrei prossima e liberatrice. ” – Milano, 20-3-1919

 

Il gaddiano Giornale di guerra e di prigionia termina così – con una pace più dura e umiliante e abbrutente, a tratti, della Guerra; e una Caporetto che imperscrutabilmente continua, anche dopo che la retorica della Vittoria non riparò né i danni né la ferite, cicatrizzate a suon di versi da ogni uomo di pena, dai fratelli di ogni reggimento a baluardo o in fuga, sulla sacra, insanguinata linea del Piave e nei moti o nelle extrasistoli, aritmìe del Cuore, per tutti “i fiumi”, secchi o fluenti, metaforici o avverati in cui sempre – come fece Giuseppe Ungaretti – noi possiamo e dobbiamo farci un’urna d’acqua, per riposarvi come una reliquia

Eccola, questa bara ancora troppo ufficiale, povera o scura, moganata elegante o grezza, intagliata di noce, equivocata ma ardimentosa di Caporetto (che fu insieme, per l’Italia tutta, ardimento e fuga, eroismo e diserzione, martirio e decimazioni in fretta, penose e obbrobriose, giusto dietro le linee…).

 

Di che reggimento siete

fratelli?

 

Parola tremante

nella notte

 

Foglia appena nata

 

Un infausto sepolcro di retorica sostituito e giubilato, redento, sasso dopo sasso, in fango di trincea, dal cristallo di luce della nuda poesia. Pietra e immenso cippo e totem o mammozzo autobiografico, macigno antropomorfico, condanna e mito di Sisifo, che solo parole d’anima possono scolpire, autoritrarre in rito di perdizione, e insieme drammatica, esemplare agnizione sensibile dentro e oltre la realtà senza scampo:

 

Come questa pietra

del S. Michele

così fredda

così dura

così prosciugata

così refrattaria

 

Plinio Perilli

 

 

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