RENATO FILIPPELLI
una voce di poesia nel secondo Novecento italiano
Presentazione del volume “Tutte le poesie” di Renato Filippelli
A cura di Fiammetta Filippelli
Gangemi editore – International publishing, 2015
Conduce
Rino Caputo
Intervengono Carmine Chiodo Emerico Giachery
con la curatrice
Fiammetta Filippelli
Letture e commenti di liriche scelte dagli studenti Ascolto di testi registrati, letti dall’autore
14 marzo 2017, ore 10 – Aula Moscati Macroarea di Lettere e Filosofia
Via Columbia 1, Roma
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
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P.S. in occasione del suddetto evento, ripropongo qui la mia recensione dedicata all’opera di Renato Filippelli (pubblicata sul n.63 -gennaio-aprile 2016- della rivista I Fiori del Male e peraltro apparsa nel presente blog in data 20/5/2016, sesto anniversario della scomparsa del poeta…a/m):
Renato Filippelli, Tutte le poesie, con pref. di Emerico Giachery, Gangemi editore, Roma, 2015
Dopo essermi confrontato nel corso della lettura del volume in oggetto con quanto è stato scritto nel tempo da vari e autorevoli studiosi in merito alle liriche di Renato Filippelli, indicherò senza indugio la silloge di questo nostro caro e verace poeta che più mi ha colpito. Senza voler far torto alle altre raccolte incluse nel libro, la silloge in questione è Plenilunio nella palude, del 1997. Nella riflessione di Fiammetta Filippelli susseguente ad essa, viene rammentato l’arco di tempo piuttosto lungo che separa la sua pubblicazione dalla precedente raccolta intitolata Requiem per il padre (1981). Nel mezzo, nella vita del poeta, la grave malattia che lo colpì nel 1996; talché, da quel momento fino alla morte avvenuta nel 2010, tutto cambiò per Filippelli, segnato nel corpo come nell’anima. “Ora la poesia è un vasto colloquio con Cristo” osserva Fiammetta, figlia di Renato (e curatrice del volume) nella suddetta riflessione; dunque di una vera e propria mutatio animi in senso petrarchesco si potrebbe a questo punto parlare -aggiungo io- riferendosi alla purezza e spontaneità di uno stile di colpo come increspato. A me pare, in effetti, sul filo dell’analisi metrico-stilistica, di avere individuato -eloquente già dal titolo- la lirica che all’interno di Plenilunio nella palude fa da spartiacque fra il “prima” e il “dopo”: I segni. Così, infatti, a metà di essa: “Elci immensi fiancheggiano la strada/ che sale alla spelonca di Subiaco;/ hanno radici sparse sulle rocce:/ nere radici, mani/ aperte con tentacoli di piovre/ ingorde di quel sacro…”. Splendore di stile e forte spinta interiore risultano un tutt’uno nei versi citati. Non può sfuggire, intanto, il rilevante fonosimbolismo attivo nel secondo di essi, ottenuto per allitterazione; a mezzo della fricativa dentale che di fatto egemonizza il suono del verso al punto di suggerire la discesa a picco verso quelle “nere radici, mani”: mirabile settenario staccato, ossia semanticamente qualificato dalla frequenza degli oggetti; quindi ripudiante una rassicurante sinalefe congeniale di contro al bel canto. La strada risulta ormai per il lettore delle più espressive, in virtù dell’endecasillabo successivo “aperte con tentacoli di piovre” di pronunzia scabra e con ictus di “sesta” su parola sdrucciola; nonché bellissima inarcatura col verso che lo incalza: “ingorde di quel sacro…”; a dire, splendidamente in quanto a resa artistica, il rapporto non univocamente armonioso del poeta col divino, dagli abissi al cielo. Di conseguenza, ecco a parer mio la lirica in Plenilunio nella palude più rilevante, ossia La tua dolcezza: “Non dai riposo: la Tua grazia è il filo/ del vomere che passa sulla terra./ Dio feritore,/ mi scavi con le mani crocifisse..”. In questi versi, la proverbiale “dolcezza” di un poeta fieramente indipendente si fa complessa e conflittuale relazione col sacro, fino al vertice indimenticabile di “Dio feritore”; quinario potente, di forza arcana, oserei dire veterotestamentaria. Sì, all’altezza di questa lirica fatta di “parole di terra” ma del tutto focalizzata sul paesaggio interiore del poeta noi troviamo un’eco dei SALMI (“giardino di simboli e dell’immaginazione”per Eliot). Dicendo sinteticamente: la grazia evasiva e autoreferenziale percepibile talvolta nelle precedenti raccolte di Filippelli, risulta a partire da qui radicalmente superata; avendo egli trovato il suo vero e definitivo oggetto, la sua -nel senso più nobile del termine- ossessione (“mi scavi con le tue mani crocifisse”). Torna alla memoria una definizione del Montale-critico relativa ad Andrea Zanzotto: ”poeta percussivo”; una definizione credo valida in qualche modo anche per Renato Filippelli, con riguardo alla sua stagione artistica più matura e travagliata che si conclude con la raccolta postuma Spiritualità (2012). Lo spazio naturalmente qui è tiranno, a fronte di una esperienza poetica, quella di Filippelli, estesa per diversi decenni e di gran lunga oltrepassante per umanità d’accenti e nitore di stile confini ai quali una lettura superficiale potrebbe banalmente ascriverla. In piena concordanza con le valutazioni critiche leggibili nel volume a proposito del nostro poeta memorabile soprattutto come cantore religioso, mi sentirei in ultimo di fare il nome di un altro autore che ho ripreso a leggere guarda caso subito dopo Filippelli: David Maria Turoldo.
Andrea Mariotti