INTORNO ALLA FERITA DEL POSSIBILE DI SABINO CARONIA
Mi sarà utile prendere le mosse, nel riflettere sulla silloge di Caronia in oggetto, da un libro famoso che recentemente ho riletto: Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes (1977). Ebbene, fra le tante figure inerenti a colui che ama cesellate dal grande semiologo francese, come non riconoscere in quella dello Scorticato un fertile punto di partenza per quanto mi preme dire a proposito dei versi del nostro poeta? Lo scorticato infatti è per Barthes, attraverso Freud, “massa di sostanza irritabile”; tale da non avere “pelle (tranne che per le carezze)”; e, ancora, “tenero, perforabile, come la fibra di certi legni”. Attenzione però alla conclusione della pagina barthesiana: “Il soggetto che è sotto l’influenza dell’Immaginario non propende verso il gioco del significante…Se scrive, la sua scrittura è liscia come un immagine, essa vuole sempre restaurare una superficie leggibile delle parole: è anacronistica rispetto al testo moderno -il quale, viceversa, potrebbe definirsi mediante l’abolizione dell’Immaginario”. A questo punto ritengo di essermi aperto sufficientemente la strada per qualificare la valenza dei versi in qualche modo senza tempo di Sabino Caronia inclusi nella prima sezione della Ferita del possibile, intitolata Io per te sono vivo; così, infatti, nei settenari deliziosamente “infantili” dedicati a un Cuore d’argento: “…prometti ogni cosa/ senza dare mai niente/…minacci ogni male/ col tuo sguardo cattivo”…per non dire, poi, del fascino avvolgente ricco di vibrazioni stilnoviste della poesia successiva, Un no di lei: “Un no di lei lo preferisco ai mille/ e mille sì di tutte le altre donne…”. Dunque, superficie leggibile di queste poesie di Caronia; ma superficie stratificata va aggiunto, in grado di dischiudere all’occhio attento del lettore i raffinati piani culturali sottesi al ductus del poeta. L’urgenza espressiva appare in esso dominata in una parola sola da mirabile purezza stilistica. Da questo punto di vista emerge per me, dalla seconda sezione del libro, Quasi una vita, una poesia particolarmente bella dedicata al grande latinista scomparso Luca Canali: ”…tu, Catullo, dottissimo poeta,/ d’edera cinto il giovinetto crine,/ nella valle d’Eliso, sorridente/ vienigli incontro e tendigli la mano”. Inoltre, e non secondariamente, la quartina incipitaria della terza sezione della raccolta (Rime incrociate, rime baciate) intitolata Questo amore, risplende di quella brevitas in cui consiste, da sempre, il fascino economico e quasi divino dell’espressione poetica: “Questo mio amore è un bambino malato/ che a letto, tutta notte, sconsolato,/ vaneggia tra le mani della sorte,/ e al bordo di quel letto c’è la morte”. L’ars di Caronia si fa poi voce di lancinante mestizia nella terza quartina della suddetta sezione, dall’ossimorico titolo Latte nero, laddove perfetta è la rima derivativa del terzo settenario: “Latte nero dell’alba,/ fredda luce assassina,/ nella tua veste scialba/ leggo la mia rovina”. Ma perché tacere di una poesia come La porta del cuore, medesima sezione, in merito alla quale non si può non pensare a quel limpido passo del De L’amour in cui Stendhal accenna in italiano all’oggetto adorato che “non rimanda la palla”? questi, infatti, i versi di Caronia: …”per te ho pianto e gridato di dolore,/ ma tu purtroppo avevi altro da fare”. A chi scrive è poi profondamente piaciuto il bellissimo sonetto A distanza della sezione successiva intriso -per un appassionato cultore di musica classica – di quella lacerante tonalità in sol minore sublime in Mozart nell’esprimere la pena amorosa (valga soprattutto l’esempio della grande aria di Pamina nel Flauto Magico riguardo al genio di Salisburgo). In conclusione, senza divagare, La ferita del possibile si propone come un libro di raffinati rimandi dal punto di vista strettamente letterario; ripensando qui ai versi in esso inclusi della poesia Orfeo nella quale ci imbattiamo prima di quella intitolata La passeggiata: ad essere chiamato in causa in entrambe è Giorgio Caproni; ma in Orfeo a parer mio in maniera più nascosta e profonda; per “memoria involontaria”, credo, soprattutto del Franco cacciatore. Le vaste letture di Sabino Caronia sono ipso facto i battiti del cuore di un poeta che ci parla da lirico puro, con grande intimità espressiva nei versi ad esempio di Come gemma: “Non lasciarlo morire/ questo cuore ostinato,/ triste come la pioggia/ lentissima d’autunno”.
Andrea Mariotti
Sabino Caronia, La ferita del possibile, Rubbettino editore, 2016
p.s. il suddetto scritto è stato da me letto al termine della presentazione del libro di Sabino Caronia avvenuta ieri venerdì 18 novembre a Roma (vedi notizia del 12 novembre nel blog; di seguito, l’ampio e mirabile testo di un poeta e critico letterario di chiara fama quale Plinio Perilli in merito alla silloge di Sabino Caronia…a/m):
“Le rose di dicembre”
che mai più sfioriscono
Come Sabino Caronia cicatrizza
in versi le ferite del possibile…
Da quando Gustav R. Hocke ha pubblicato quell’ineffabile, sinestetico capolavoro che è Il manierismo nella letteratura, non abbiamo più alibi per affrontare a dovere, con rigore e insieme entusiasmo, “alchimia verbale e arte combinatoria esoterica” miscelate e sottese a ogni dono o parto poetico.
La nuova breve, intensa raccolta di Sabino Caronia, è in questo senso un protocollo diligente ma a suo modo assai estroso e inopinato di far manierismo dentro il moderno, salvandone e salvandosi l’anima… Una suadente selva di citazioni, imprestiti, rimandi ci accoglie in questa cartacea, fascinosa Reggia di Alcina (o egualmente Palazzo di Atlante – pericolosi entrambi, perché labirinti di magie): e noi mentalmente registriamo, annotiamo a labirinto i nomi, i cari numi tutelari da cui un po’ tutti veniamo (Cardarelli, Penna, Gatto; Saba, Ungaretti, Montale; Quasimodo, Caproni, Pasolini, Luzi, Sereni…), adottati e recitati pressoché a memoria, come la formazione d’una novecentesca “nazionale” ideale… Calcio o letteratura, forse è lo stesso…
Come un bambino gioca con la maglietta del suo campione – incarna il suo numero – sentendosi Lui medesimo, Sabino evoca e invoca quell’estro mitizzato, inseguito, fino al miracolo d’immaginarlo proprio, di farlo insomma accadere: e lo fa via via con tutti i suoi campioni, così come si faceva, a mo’ di album adolescenziale, con le quotidiane e stranamente auratiche figurine Panini…
Ecco Penna ultra-alessandrino: “Passa distrattamente / accanto a me la gente”…
L’amatissimo Caproni livornese, liliale e filiale: “Anima mia leggera, / va’ a Parigi, ti prego, / e con la tua candela”…
Corazzini fanciullo, martire triste d’inizio ’900: “Questo mio amore è un bambino malato / che a letto, tutta notte, sconsolato”…
Rebora, incredibile dictu, espressionista già chiamato da Dio, infebbrato di fede: “il buio cresce e l’anima dispera”…
Perfino Palazzeschi giovin “crepuscolare”, poco prima del futuristico “contro-dolore”: “Era già buio, tanto buio prima”…
Ventimila leghe sotto i mari inesausti del petrarchismo, anche sommossi e rapiti da un fondale moderno, chiamano Caronia a questa militanza ardita e maliarda, perigliosa e squisita, della Maniera come forma mentis; alta e smagliante, impulso stesso creativo. Inarginabile Canzoniere sentimentale, “alla maniera di”:
Altera ti rivedo, altera e bella,
passare, così passano le stelle.
Sì, ti rivedo, sì, rivedo ancora
quel tuo chiaro freddissimo sorriso.
Sino al vero e nudo pertugio sensibile, direi al cedimento struggente della Grazia: alla smagliatura, cioè, di un verso proprio, ineludibile e quindi inoppugnabile, come cicatrice d’una ferita che non somiglia a nessun’altra, e quindi riazzera il tutto: tradizione e memoria, un’eredità che ci chiama finalmente alla nudità, alla cruda impellente identità…
“… Io per te sono vivo e di te sola / scapigliata poesia soltanto vivo.”
Curiosissima clausola, che la sua dichiarazione d’amore la rivolge, più che a una Dama, alla poesia fattasi Donna, Dea, Diva, Musa radiosa per versi irradianti. E nel mentre egli si sente, s’impenna “scapigliato” (come Praga, Dossi, Imbriani, Boito, Tarchetti… tutti i bastian contrari fine ’800), adempie inappuntabile il suo bel ruolo e status di parnassiano ideale, come i poeti eleganti da cui partì Baudelaire – ma per sprezzarli, per strappare il verso più in là, dentro il bosco o la Selva, non meno oscura che redimibile, di cento, mille Correspondances….
Ma a che serve un ricordo, a cosa giova
la lontana memoria di un sorriso?
Anche i ricordi non sono che mani
che non si toccano e ogni cosa muore.
Sono i momenti più belli di questa raccolta, dove Sabino, abilmente, si nasconde, tituba, si protegge dietro piccole o grandi melodie d’esperienza, ma insieme risemina le sue, prende queste gemme roride ancora di pioggia e sbaciucchiate dal sole, o questi bulbi scuri e fervidi d’humus, questi rizomi umidi di buio – a crescerli, miracolarli d’ombra fedele, per primavere tutte sue e pudiche, o fioriture strepitose, rapinose in candore…
Altra cosa non chiedo dalla vita
che una stanza per me dentro al tuo cuore,
piccola, niente lusso, ma pulita,
poco spazio mi basta e poco amore.
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Poeta d’amore vuol dire anzitutto “fedele d’amore” – e Caronia lo è, direi da sempre e per sempre, forte solo di quest’istinto cocciuto verso una melodia che suona o dirompe soffice, echeggia ed “è in noi, oppure non esiste”, scripsit Mario Luzi (“La mia pena è durare oltre quest’attimo”). Dopo tanti anni d’amicizia e di consuetudine, posso addirittura collegare certe scenette visive, o i suoi timidi, cari riti d’intensità, diciamo pure adorabili gag caratteriali… ai componimenti più teneri e necessari del nostro Sabino:
Quando nessuna parola più giova,
in nessun luogo, da nessuna parte,
e più non c’è speranza, e non c’è amore,
sfondiamo il grigio muro che separa
il nostro breve sogno dalla vita
e andiamo avanti verso l’assoluto.
… Quella volta, ormai vent’anni fa, che per un numero de “La Scrittura” su Caproni, vergò (e mi lesse) versi per sua madre, e “rime chiare, in –are”, beh, non livornesi, echeggiando il grande autore de Il seme del piangere… O quando soffriva, consacrava il lutto per la perdita del comune amico Elio Fiore, quasi cadenzando un mottetto o solfeggiando la sacra antifona di un’occasione montaliana… Montale e i girasoli impazziti di luce, dolcemente non nominati (o deificati) invano, dentro e oltre l’orrore della Storia… e d’ogni irripetibile – ma il Male è sempre ripetuto – 16 ottobre 1943:
“Coi fucili battevano alle porte”
ripeteva il poeta, e così sia,
ma dopo tanto male e tanta morte
forse è barbarie pure la poesia.
Ancora oggi, in queste ultime stagioni, o metaforico inverno del suo, spesso anche nostro scontento, Sabino Caronia si presenta al laboratorio del mercoledì con l’improntitudine del vecchio ragazzo che conforta (sfotte) gli amici, e fa la corte (o comunque intona sim-patia) alle allieve più belle e fragili, alle anime più romantiche: e recita dolci piccole nugae o sonetti di un eterno, trasparente Anniversario, scritti in foglietti sempre più piccoli e spiegazzati, con grafia sempre più minuta, a tratti davvero indecifrabile – ma per vertigine cara, nascondimento e battesimo (officia Luzi imperituro) dei nostri frammenti…
Ho promesso alla rosa che tenevi
come un piccolo cuore tra le dita
quella sera che andando sorridevi
da un altro tempo a me, da un’altra vita
…
Poi “Sabi” scappa via, dietro appuntamenti improbabili o forse inesistenti, alibi sublimanti, come avesse appena dichiarato eterno amore all’Attimo Fuggente (“La storia umana è l’attimo che fugge”), amicizia eroica a tutti i Poeti Estinti inestinguibili, arroccati in confraternita: proponendosi come hidalgo ideale d’ogni Poema Senza Eroe…
Deserta Andalusia che il cuore pungi
come pensiero di donna lontana,
io lo so che non più di cavalieri
erranti è tempo e di perduti amori,
perciò fuggo le lunghe strade rosse
che vanno dritte verso nessun dove
…
Ma non è un poemetto apocrifo: né dell’Achmatova, né di Pasternak… È semplicemente l’ultima raccolta del Nostro, che suona, vale insieme come referto e vaccino, antidoto avverso La ferita del possibile – titolo che pulsa già una poetica, forse una già risolta, antica e infantile malattia esantematica…
Sabino gioca “rime chiare in –are” (ma caproniane, urticanti – tutt’altro che consolatorie, per sua e nostra fortuna!): e presto trova il buio che ci protegge, ci salva come si salva il seme sotto la neve (voilà Silone! – un’altra consacrata Uscita di sicurezza: e quando non basta, per lui e per noi tutti, L’avventura di un povero cristiano, ecco la mitteleuropa di Chiusano, il suo Goethe olimpico; ma anche Orfeo in Paradiso di Santucci, il Paese d’ombre cioè la Sardegna di Dessì, e soprattutto l’apocrifo Quinto Evangelio di Mario Pomilio – tutti i grandi, obliati libri del ’900 da cui veniamo)… Così Sabi si nasconde elegante fra citazioni, calchi, eserghi, epigrafi, echeggiamenti à la manière de… E lascia nel buio i bianchi sassi di Pollicino, parole cioè che nessun animaletto amico della notte potrà beccare, rubare via come semplici, casuali mollichine di pane…
L’alba lo trova ancora dentro il bosco – già quasi uscito: e laggiù c’è la sua casa… Il ’900 forse dov’è nato e cresciuto, tutti
quegli scuri e cari scaffali dove i poeti si danno appunto convegno, certo nella notte quando tutto è spento: computer, emittenti, siti, social network, forum e community… E sono svegli e fertilissimi solo i sogni, i versi trasognati o le alchimie verbali, salmodiate d’anima, abbacinanti come elfi, gnomi o spiritelli stessi del desiderio. Lari e Penati, dicevano i latini, che divinizzavano tutto: familiari e filosofi, doctae puellae e accese virago d’Eros, aedi ciechi e guerrieri dello scibile.
Tutto mi manca quando tu mi manchi,
ogni umana, celeste compagnia,
io non voglio guarire, io solo cerco
per me le rose di maggio in dicembre.
*********
Vorrei dire a Sabino – lui forse ne sarà lieto – che a un certo punto mi è giunta schietta, naturale, la voglia matta di riaprire vecchi libri di scuola ancora annebbiati, addormentati d’oro, e tornare a certi passi preziosi, mai leziosi dello Stilnovo: quando Dante e Cino e Guido e altri sodali (“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento”), inseguivano amori e grandi afflati nei pochi versi d’un sonetto, due quartine due terzine, quattordici scalini, forse, per salire al cielo, un piano dopo l’altro, dal rosa all’azzurro.
Così chiedi e una voce in te sussurra:
“Non l’orizzonte è azzurro ed i profili
familiari dei monti e non è azzurra
la gioventù, l’amore o la speranza
la pargoletta gioia o i puerili
sogni del cuore: azzurra è la distanza”.
Forse per questo ho riaperto, direi ho sfasciato, medicato e rifasciato, questa volta – amico mai spazientito – la ferita di Sabi, in cicatrice di tutto il suo possibile; fasciato a garza di languori, divinando i colori, riannotandoli, riannodandoli… Sono le gemme, le sue gioie più vere, dimentiche e perdute – sassi d’onice, lapislazzuli, schegge di perle e frammenti di porpora per farne tavolozza d’anima, dizionario dei sensi: quando sognano, pregano, e poi svolano.
Svolano eterni e fugaci, buffi e arditi, dall’innamoramento all’autoironia (“per te ho pianto e gridato di dolore, / ma tu purtroppo avevi altro da fare.”). Spine banali, a ferirlo, desublimarlo di bellezza… Ma anche eleggerlo, al contempo, giardiniere e giardino…
Nessuno si senta escluso: potatore incantato, innesto metafisico: “Le rose di dicembre” che mai più sfioriscono.
Plinio Perilli