Nel sesto anniversario della scomparsa del poeta Renato Filippelli, propongo ai visitatori del blog la mia recensione della sua opera pubblicata sul numero 63 della Rivista I Fiori del Male (gennaio-aprile 2016):
Renato Filippelli, Tutte le poesie, con pref. di Emerico Giachery, Gangemi editore, Roma, 2015
Dopo essermi confrontato nel corso della lettura del volume in oggetto con quanto è stato scritto nel tempo da vari e autorevoli studiosi in merito alle liriche di Renato Filippelli, indicherò senza indugio la silloge di questo nostro caro e verace poeta che più mi ha colpito. Senza voler far torto alle altre raccolte incluse nel libro, la silloge in questione è Plenilunio nella palude, del 1997. Nella riflessione di Fiammetta Filippelli susseguente ad essa, viene rammentato l’arco di tempo piuttosto lungo che separa la sua pubblicazione dalla precedente raccolta intitolata Requiem per il padre (1981). Nel mezzo, nella vita del poeta, la grave malattia che lo colpì nel 1996; talché, da quel momento fino alla morte avvenuta nel 2010, tutto cambiò per Filippelli, segnato nel corpo come nell’anima. “Ora la poesia è un vasto colloquio con Cristo” osserva Fiammetta, figlia di Renato (e curatrice del volume) nella suddetta riflessione; dunque di una vera e propria mutatio animi in senso petrarchesco si potrebbe a questo punto parlare -aggiungo io- riferendosi alla purezza e spontaneità di uno stile di colpo come increspato. A me pare, in effetti, sul filo dell’analisi metrico-stilistica, di avere individuato -eloquente già dal titolo- la lirica che all’interno di Plenilunio nella palude fa da spartiacque fra il “prima” e il “dopo”: I segni. Così, infatti, a metà di essa: “Elci immensi fiancheggiano la strada/ che sale alla spelonca di Subiaco;/ hanno radici sparse sulle rocce:/ nere radici, mani/ aperte con tentacoli di piovre/ ingorde di quel sacro…”. Splendore di stile e forte spinta interiore risultano un tutt’uno nei versi citati. Non può sfuggire, intanto, il rilevante fonosimbolismo attivo nel secondo di essi, ottenuto per allitterazione; a mezzo della fricativa dentale che di fatto egemonizza il suono del verso al punto di suggerire la discesa a picco verso quelle “nere radici, mani”: mirabile settenario staccato, ossia semanticamente qualificato dalla frequenza degli oggetti; quindi ripudiante una rassicurante sinalefe congeniale di contro al bel canto. La strada risulta ormai per il lettore delle più espressive, in virtù dell’endecasillabo successivo “aperte con tentacoli di piovre” di pronunzia scabra e con ictus di “sesta” su parola sdrucciola; nonché bellissima inarcatura col verso che lo incalza: “ingorde di quel sacro…”; a dire, splendidamente in quanto a resa artistica, il rapporto non univocamente armonioso del poeta col divino, dagli abissi al cielo. Di conseguenza, ecco a parer mio la lirica in Plenilunio nella palude più rilevante, ossia La tua dolcezza: “Non dai riposo: la Tua grazia è il filo/ del vomere che passa sulla terra./ Dio feritore,/ mi scavi con le mani crocifisse..”. In questi versi, la proverbiale “dolcezza” di un poeta fieramente indipendente si fa complessa e conflittuale relazione col sacro, fino al vertice indimenticabile di “Dio feritore”; quinario potente, di forza arcana, oserei dire veterotestamentaria. Sì, all’altezza di questa lirica fatta di “parole di terra” ma del tutto focalizzata sul paesaggio interiore del poeta noi troviamo un’eco dei SALMI (“giardino di simboli e dell’immaginazione”per Eliot). Dicendo sinteticamente: la grazia evasiva e autoreferenziale percepibile talvolta nelle precedenti raccolte di Filippelli, risulta a partire da qui radicalmente superata; avendo egli trovato il suo vero e definitivo oggetto, la sua -nel senso più nobile del termine- ossessione (“mi scavi con le tue mani crocifisse”). Torna alla memoria una definizione del Montale-critico relativa ad Andrea Zanzotto: ”poeta percussivo”; una definizione credo valida in qualche modo anche per Renato Filippelli, con riguardo alla sua stagione artistica più matura e travagliata che si conclude con la raccolta postuma Spiritualità (2012). Lo spazio naturalmente qui è tiranno, a fronte di una esperienza poetica, quella di Filippelli, estesa per diversi decenni e di gran lunga oltrepassante per umanità d’accenti e nitore di stile confini ai quali una lettura superficiale potrebbe banalmente ascriverla. In piena concordanza con le valutazioni critiche leggibili nel volume a proposito del nostro poeta memorabile soprattutto come cantore religioso, mi sentirei in ultimo di fare il nome di un altro autore che ho ripreso a leggere guarda caso subito dopo Filippelli: David Maria Turoldo.
Andrea Mariotti
Ormai sono ampiamente persuaso che è nell’ordine delle cose, trovare su queste pagine fonti purissime di ispirazione. La mia ignoranza trova mangime per la sua fame e, questa presentazione analitica dell’opera di Filippelli è un ulteriore seme nel solco di un terreno fertile. Una meravigliosa scoperta di una poesia che riempie spazi emozionali difficilmente raggiunti.
Quindi cosa dire se non grazie Andrea per questa introduzione al mistero della spiritualità di un poeta così profondo?
Un caro saluto
Francesco
Grazie Francesco per questo tuo generoso commento, scusandomi con te per il ritardo nel risponderti causa difficoltà tecniche accennate. Un caro saluto