Con grande piacere propongo una esaustiva recensione scritta dal prof. Bruno Nacci in merito al recente saggio del prof. Lucio Felici (saggio di cui il presente blog ha dato sinteticamente notizia in data 16/12/2015). La recensione in oggetto è apparsa sul recente numero 20 di OBLIO, “Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca”, trimestrale elettronico diretto da Nicola Merola per l’editore Vecchiarelli di Manziana (Roma):
Lucio Felici
L’italianità di Leopardi e altre pagine leopardiane
Presentazione di Luigi Blasucci
Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 2015
ISBN: 978-88-6550-481-9
Terzo volume di saggi leopardiani, questo di Lucio Felici racchiude, pur nella variegata gamma di interessi dell’autore, una precisa indicazione di metodo, a cui non sarà ozioso accennare, e che lo stesso Blasucci, nella rigorosa quanto affettuosa introduzione, adombra riferendosi alla sua posizione di «studioso non accademico» (p. 8), rintracciando nella sua carriera intellettuale «da un lato un corredo culturale moderno, di respiro europeo, dall’altro un’eleganza di scrittura senza ostentazioni» (p. 8). Al contrario, pensando al quadro storico di riferimento a cui una simile definizione potrebbe far pensare (la stagione della cosiddetta prosa d’arte o dei capitoli, per riprendere il titolo di un libro di Enrico Falqui), Blasucci invita ad accostare ognuna delle indagini di Felici superando l’impressione superficiale di una ricerca frammentaria, per coglierne il suo
«microcosmo: gli oggetti di volta in volta presi in esame, per quanto minimi, vengono discretamente ma lucidamente inquadrati in un tutto» (p. 9). E la parola ‘tutto’ segnala appunto l’esistenza del metodo di cui dicevamo, che si potrebbe anche ricondurre al senso primitivo del termine ‘dialettica’, perseguito da Felici con coerenza nelle sue decennali ricerche, e che affiora nella lunga intervista a Roberto Lauro riportata alla fine del volume. Rievocando i lunghi anni trascorsi alla Garzanti, nell’intervista Felici sottolinea il clima non proprio favorevole a Leopardi, l’inclinazione tutta gaddiana verso l’altro grande dell’Ottocento, Manzoni, e ricorda come «a Milano e nell’ambiente editoriale in cui lavoravo, Leopardi restava in ombra. A lui non si addicono connotazione di geografia letteraria, perché il suo spazio è l’infinito: Recanati c’è ma come luogo di una storia solitaria e sofferta dell’anima; e gli va stretto l’illuminismo progressista, fondamentalmente ottimistico, dei riformatori lombardi, al pari del liberalismo moderato dei fiorentini del Vieusseux» (pp. 149-150). Costante riferimento dunque alla connessione tra il particolare e il quadro generale, il dato storico e il senso complessivo, e il punto è ulteriormente chiarito in relazione a una propensione, quella filologica, di una certa filologia di scuola lombarda, a cui non a caso Felici riserva, tra gli altri, questo passo significativo: «La filologia dà buoni frutti quando si brucia nella comprensione totale del mondo dell’autore, nell’immedesimazione simpatetica con esso» (p. 150).
La prima parte del libro è dedicata all’italianità di Leopardi, rivendicandone lo spirito patriottico che, pur teorizzando la vanità delle illusioni a cui l’amor patrio certamente appartiene, al tempo stesso ne coglie quell’intima vitalità che è poi una delle radici più profonde della poetica e del pensiero leopardiano, come rilevava De Sanctis. Felici, analizzando il sentimento patriottico, scandaglia però anche l’eccentrica distanza di Giacomo dalle diverse vulgate politiche del tempo:
«che certo non poteva andare d’accordo con nessuna delle ideologie e correnti risorgimentali: non con il liberalismo toscano gravitante intorno al Vieusseux, perché troppo fiducioso in un progresso scientifico, tecnico, economico […] tantomeno con lo spiritualismo cattolico dei liberali napoletani» (p. 29).
Anche quando l’autore scende sul terreno puramente filologico-documentario, come nella contestazione di un falso leopardiano (L’Italia agl’Italiani), la verve biografico-narrativa (di cui non molti anni fa dette un mirabile saggio nella lunga introduzione all’opera di Trilussa raccolta in un Meridiano Mondadori) non lo abbandona mai, e da una facile dimostrazione di insipienza da parte di storici improvvisati, riesce a trovare spunto per il fugace ritratto di una cantante
ottocentesca, Maria Malibran, che ai versi impropriamente attribuiti a Leopardi aveva dato occasione, inseguendo la scomparsa del suo busto commemorativo dal Ridotto della Scala… Il saggio centrale della raccolta è quello che Felici dedica alla presenza sotterranea del mito di
Amore e Psiche nell’opera di Leopardi, dai progetti giovanili alla lettura di Madame de Lambert e del Firenzuola, per approdare ai versi di Amore e Morte, il cui modello plastico sono le sculture di Pietro Tenerani (Psiche abbandonata e Psiche svenuta). In particolare l’analisi verte sull’accostamento (o più che accostamento analogia) tra il mito biblico e quello laico della favola antica, che Leopardi interpreta come conferma dell’inconciliabilità tra ragione e natura, sapere e felicità. Anche in questo caso, l’indagine testuale si coniuga con l’acribìa del ricercatore (quale delle copie della Psiche svenuta di Tenerani il poeta conobbe?) ed entrambe convergono nella narrazione che fa luce non solo su un passo o una ricorrenza leopardiana, ma da queste riverbera sull’intera opera del recanatese.
La ricerca su Parole e immagini poetiche nello Zibaldone, suggeritagli, come ricorda l’autore, da María de las Nieves Muñiz Muñiz, prende spunto dall’Indice del mio Zibaldone, in cui si parla di
«Voci e frasi piacevoli e poetiche assolutamente, per l’infinito o indefinito del loro significato» (p. 69). L’analisi di Felici spazia dall’accertamento delle riflessioni leopardiane in merito contenute nello Zibaldone, all’analisi dei testi poetici con puntuali e rivelatrici considerazioni, come nel caso dello sfavore con cui il poeta considera una coppia di aggettivi: «Penso che, se irremeabile è stato rifiutato per la sua artificiosità, irrevocabile non abbia avuto seguito per ragioni opposte, perché divenuto troppo usuale e, di conseguenza, prosaico» (p. 80). Ma anche il breve campionario, frutto di uno spoglio accurato, porta in fine alla considerazione più generale del romanticismo leopardiano (un «romanticismo personale») che anche nelle scelte lessicali mostra ascendenze classiche ed è
«sempre accompagnato dalla conoscenza e dall’ansia della conoscenza» (p. 84).
Appropriato, e in tema con il titolo dell’opera, il bel saggio Paesaggi visti in carrozza, dedicato a Leopardi viaggiatore, ci porta con gustose scorribande letterarie, storiche e documentarie, nel laboratorio di immagini e sentimenti del poeta, per altro parco di annotazioni che riguardano i suoi spostamenti per l’Italia. Dalla descrizione dei diversi tipi di carrozze e di viaggio, alla presenza in carrozza con Leopardi del giovane Gioberti, al vivido ricordo di Spoleto e Trevi che fanno capolino nelle pagine di Giacomo e che suggeriscono a Felici una acuta considerazione: «nel passaggio dalla lirica idillica alla “nuova poetica” energica e vitale, iniziata proprio da Il pensiero dominante, le dolci linee della natura marchigiana […] vengono sostituite, sia pure per un attimo, da quelle di uno “scorcio umbro” che egli ha sperimentato nei suoi contrasti chiaroscurali, tra asprezze di rocce e pianure verdi che “lontan” sorridono» (p. 93). Ma è soprattutto la visione di Trevi, presente nei Paralipomeni e descritta con lessico dantesco, che Felici sottolinea per la sua singolarità: «Per la resa minuziosa dei particolari, quasi una miniatura, è questa un’evocazione di città forse unica nella poesia leopardiana» (p. 96). Non è solo il «fascino del fiabesco» della cittadina umbra ad attirare lo studioso, che proprio da un’espressione presente nei versi dedicati a Trevi, e ricorrente nella poesia di Leopardi («intorno intorno»), prende spunto per una divagazione linguistica che si conclude nella messa a fuoco del lessico indirizzato a quel sentimento dell’infinito che gioca un ruolo così importante nella sua poetica, definendo anche la presenza discreta dell’immaginario fiammingo, Dürer, ben presente a Leopardi.
Come nel caso dei saggi dedicati all’opera e alla biografia leopardiana, così in quelli che rievocano figure di studiosi di Leopardi, Natalino Sapegno e Sofia Ravasi, che chiudono il volume prima dell’intervista già citata, Felici non si accontenta di una esposizione “storica” del loro pensiero o, per quanto riguarda la Ravasi, di un loro libro, ma tende a dialogare con loro, interrogandoli, interrogandosi, interrogando i testi leopardiani. La lunga fedeltà di Sapegno a Leopardi, non indenne da scarti e ripensamenti, avviata a partire dai corsi universitari del 1937, fin dall’inizio lo aveva portato a cogliere la sua centralità intesa «sia come espressione di assoluta e perfetta liricità, dopo Petrarca e il petrarchismo […] sia come anomalo esponente di una linea romantica italiana così divergente da Manzoni e, quindi, dal realismo che nel corso dell’Ottocento sarebbe sfociato nella grande narrativa di Verga» (p. 110). Felici rileva in Sapegno, come in buona parte degli
studiosi della sua generazione, una sottovalutazione del pensiero leopardiano, che alla luce della sistematicità idealista (e in Italia soprattutto crociana), ritiene gli interrogativi che attraversano la sua opera dei semplici «moti passionali», non accorgendosi che «di quelle domande, rimosse dai sistemi idealistici, hegeliani e posthegeliani, in realtà si nutre il pensiero contemporaneo, in particolare l’esistenzialismo» (p. 112).
L’ultimo saggio della raccolta rievoca e discute il libro Leopardi et Mme de Staël (1910, ristampato in edizione anastatica nel 1999, a cura dello stesso Felici) di Sofia Ravasi (la madre dell’editore Livio Garzanti), opera unica di una studiosa promettente che aprì la via agli studi dei rapporti tra l’esponente del romanticismo europeo e il giovane studioso recanatese. La riproposta del lavoro della Ravasi, che è la rielaborazione della sua tesi di laurea (fu proprio Felici a scoprirlo nell’edizione del 1999), così puntiglioso e di ampio respiro da dimostrare «una non comune padronanza tanto della letteratura francese quanto di quella italiana, oltre che del pensiero filosofico europeo tra Sette e Ottocento» (p. 124), in alcuni casi anticipa i tempi della critica: «Ma le pagine più valide, precorritrici di future analisi, sono quelle che la Ravasi dedica all’Ultimo canto di Saffo». Oltre a ciò, ci sono le puntuali osservazioni che riguardano Leopardi lettore di Corinne, a cui il poeta si accosta riconoscendovi il proprio particolare sentimento: «Secondo la Ravasi, dalla lettura di pagine come questa Leopardi, a partire dal 1819, prese coscienza dell’origine tutta interiore dell’infelicità delle anime grandi» (p. 130). Ma al di là del tentativo, originale per quegli anni, di trovare una convergenza tra pensiero e poesia, per quanto riguarda la seconda parte dell’opera: «Il meglio sta nella ricchissima messe di riscontri testuali “certi”, con acquisizioni nuove» (p. 141).
Per concludere riportiamo il giudizio complessivo sul libro «E non minore merito mi sembra quello di avere impresso al suo saggio – in tempi di erudizione piuttosto grigia e pedantesca – un ritmo svelto e stringente, che riassorbe in movenze a tratti narrative, comunque di piacevole lettura, il rigore impeccabile della documentazione, l’analisi puntuale dei testi a confronto, i rimandi criticamente vagliati agli studiosi che allora contavano» (p. 121). Il giudizio, che riguarda Ravasi, non potrebbe essere riferito, e con maggiore pertinenza, al lavoro di Felici stesso, in cui la serietà degli studi e la profondità di pensiero si armonizzano in una scrittura sobria, precisa e nitida?
Bruno Nacci