LINO TARDIA
REGOLA ED EMOZIONE Inaugurazione SABATO 3 OTTOBRE ORE 18
a cura di Francesco Ciaffi
presentazione di Franco Campegiani
La rinascita del mito nella pittura di Lino Tardia
mostra del 03/10/2015 presso il Museo Mastroianni di Marino
“Regola ed emozione” è il titolo della mostra allestita presso il Museo Mastroianni di Marino e curata dalla Galleria “Edarcom Europa” in occasione della 91esima Sagra dell’Uva di Marino, il cui Manifesto è stato quest’anno realizzato dal Maestro Lino Tardia. La selezione delle opere esposte include tele presentate dall’artista nella storica mostra “La scatola dei miti” del 2009 presso il Museo Nazionale di Palazzo Venezia di Roma, e propone dipinti dell’ultimo ventennio, alcuni dei quali presenti nella mostra “In viaggio con i Fenici” del ’96 presso la Galleria d’Arte Moderna di Spoleto. In quale ambito poetico nasce e si sviluppa la voce pittorica di Lino Tardia? Essa si afferma nel secondo dopoguerra entro il solco del Neorealismo e dell’amarezza generata dall’avvento della società di massa dei tempi attuali.
Siciliano di origine, l’artista giunge a Roma sul finire degli anni Cinquanta. Frequenta Via Margutta e gli studi di Guttuso e Mirabella, dove vive esperienze indimenticabili. Poi, negli anni Sessanta, la sua ricerca si sposta dal Realismo all’Informale, quindi alla Nuova Figurazione dietro le stimolazioni esistenzialiste e tragiche di Francis Bacon (artista non meno insulare di lui), conosciuto a Londra durante un viaggio di lavoro. La presente vetrina documenta l’immaginario figurativo cui l’artista è giunto attraverso questa stratificazione complessa, all’incrocio tra de-figurazione astratta e maniere figurali, tra rappresentazione realistica e riduzionismo geometrizzante, tra evocazione paesistica e poetiche materico-informali.
Il risultato è una forma di simbolismo astratto che sembra alludere ad una sorta di geometria cosmica o sacra. Il punto di svolta, in tale ricerca di senso e di anima, è rappresentato dalla mostra citata del ’96, “In viaggio con i Fenici”. In quella mostra tornava alla grande il tema mitologico, non più in chiave classica ma in chiave totalmente rinnovata. La mitologia riscopriva la sua originaria natura mitopoietica ed il mito tornava ad essere sorgivo ed autentico, non più ingabbiato in dogmi e storie precostituite. Un indirizzo, del resto, comune a molte avanguardie dei nostri tempi che si sono ispirate al primitivismo e alle culture native, non certo per passatismo nostalgico, o per desiderio di recupero, quanto piuttosto di rifondazione civile e culturale.
Di miti non può fare a meno il genere umano. Non a caso, nel mentre abbandonava le vecchie favole, la cultura contemporanea ne veniva creando di nuove: il Futurismo, con il suo mito della macchina, del dinamismo, della velocità, dell’azione. Ma non è certo il mito tecnologico ad affascinare Tardia. Egli ascolta con disincanto le sirene dei moderni paradisi artificiali e la sua arte si radica in quella cultura visiva dei nostri tempi, sostanzialmente veristica e crepuscolare, che avverte il distacco dell’anima dal mondo attuale. Di ascendenze guttusiane, questa voce non percorre la scia del furore avanguardistico dominato dalle poetiche dell’azione di area futurista, bensì la scia di quella visionarietà che sente e che piange la perduta misura umana.
In quest’area assai variegata, dominata, se vogliamo, dal teatro del vuoto dechirichiano, ma poi ribadita dalla glorificazione surrealista degli oggetti, per non dire dell’ironia feticistica di Duchamp o della polemica anticonsumistica della Pop Art, la ricerca di Tardia si staglia per valenze e risultati assolutamente personali. Nell’immenso naufragio dell’anima, egli viene come folgorato dall’humanitas delle arcaiche culture, dai loro miti ed archetipi, fino a rinnovarli in forme originali e creative. Ed è un’innovazione formidabile in tempi in cui alle essenze, ai principi, alle radici, ai valori, non si è disposti a dare molta considerazione. Ne nasce una visione nuovamente cosmocentrica della vita, che cattura ed affascina per le prospettive di rinascita che propone.
Queste tele sono delle vere e proprie cosmogonie, racconti del germinare dei mondi, l’uno dall’altro, secondo un’incessante e incandescente esplosione vitale. Un teatro fresco e zampillante, fantasmagorico, che pone in scena la creazione universale, ciò che affiora e viene alla luce da sorgenti misteriose e incorruttibili. Una poetica del rinnovamento, del capovolgimento, capace di scorgere, al di là di ogni limite, nuovi mondi e inedite alternative. Al contrario del teatro dechirichiano, che mostra l’eterna consunzione, l’infinito logoramento e l’inappellabile estinzione delle cose, qui è l’alba della vita a fare la sua apparizione, con quello sdoppiamento (si noti la frequente divisione della tela in due campiture) che sembra evocare la Madre Fenicia, la sua capacità di spezzarsi come il pane per dare vita a tutti gli esseri e a tutti i mondi.
E’ la weltanschauung dei Fenici, come di altre civiltà scomparse del Mediterraneo antico, legate ad una visione generativa e ciclica dell’esistenza, alle metamorfosi della Terra-Madre, capace di passare dalla vita alla morte e dalla morte alla vita (ricordiamo il mito dell’Araba Fenice?). In fondo la specularità, il paesaggio a specchio che troviamo in queste tele può essere considerata un riflesso della dualità e del bifrontismo tipici di ogni mito sorgivo: il rispecchiamento, l’allineamento degli archetipi con il mondo reale. Le figure sono grumose e totemiche, intrise di suggestioni astrali, di riflessi spesso dorati, come ad evocare la sacralità del creato. Sono coaguli di materia e di energia pensante, scatole dei miti, appunto, che come calamite attraggono elementi eterogenei, caricandoli di contenuti psichici straordinari.
Vi entra di tutto: lune, soli, astri e satelliti, unitamente a cenni antropomorfi e a citazioni cronachistiche, a stralci di giornale (dipinti e non incollati). Il tutto condito da richiami arcaici, come corni, portali, cattedrali, luoghi sacri ed altro. Ma un discorso a parte merita il ciclo degli aquiloni, dove la dualità si presenta sotto forma di antitesi/osmosi tra il Bene ed il Male. Qui il gioco innocente dei bimbi si trasforma nel becco adunco di un rapace, o nella testa di un siluro, più spesso nel muso minaccioso di un cacciabombardiere che semina morte, per poi tornare a volteggiare bonario sulla spiaggia in quei fanciulleschi occhi incantati. E qui fa capolino Eraclito, con la sua mediterranea e ionica armonia dei contrari.
Franco Campegiani