In occasione del genetliaco di Giacomo Leopardi oggi, 29 giugno 2015, il presente blog si onora maggiormente di offrire in lettura una lunga e densissima INTERVISTA SU LEOPARDI rilasciata dal prof. Lucio Felici a Roberto Lauro (si rammenta quella concessa alla rivista ORIZZONTI CULTURALI ITALO ROMENI e qui leggibile il 12 maggio scorso). Lucio Felici ha presieduto dal 2007 al 2014 il COMITATO SCIENTIFICO del CENTRO NAZIONALE DI STUDI LEOPARDIANI di Recanati, ed è attualmente membro di un comitato scientifico del CNSL per così dire “allargato”; formato cioè da consiglieri veterani e distinto da quello esecutivo:
Per gentile concessione di Lucio Felici, si ripropone un’intervista da lui rilasciata nel 2012 a Roberto Lauro, direttore della redazione di “Appunti leopardiani”, rivista elettronica (www.appuntileopardiani.cce.ufsc.br) delle Università di Santa Catarina (Brasile) e di Basilea, che la pubblicò nel numero (4) 2, 2012, pp. 94-112. Qui il testo riappare con alcune modifiche e integrazioni inedite apportate dall’intervistato.
INTERVISTA SU LEOPARDI
a cura di Roberto Lauro
Come e quando inizia il suo rapporto con Leopardi? È stato il suo primo autore?
Può sembrare inverosimile, anzi una sciocca vanteria: il mio primo impatto – e fu un duro impatto! – risale alla prima media, quando avevo soltanto dieci anni, avendo saltato, con un esame, la quinta elementare, non perché fossi particolarmente bravo, ma perché la mia scuola elementare era stata occupata da famiglie di sfollati che avevano perso la casa sotto i bombardamenti. Era il 1945, ultimo anno di guerra: abitavo a Testaccio, popolare rione di Roma, e la scuola media, situata nell’antico ghetto teatro di recenti tragedie, la raggiungevo a piedi o in camionetta, non essendoci i tram. I miei compagni erano tutti molto più grandi di me, ragazzi che avevano interrotto gli studi a causa della guerra, in gran parte ebrei scampati alle persecuzioni. Ebbene, mi capitò una giovane e bella professoressa siciliana fan di Leopardi, che ci fece imparare a memoria All’Italia, A Silvia, Il passero solitario, Il sabato del villaggio.
Consuetudine ormai dismessa nella scuola, quella di fare imparare a memoria i versi.
Sì, ma per fortuna neppure si sopprimono più nelle antologie scolastiche le parti cosiddette “gnomiche”, come allora si usava. Quanto capivamo di quelle poesie in prima media? Poco o nulla. Però il suono di certi versi, la suggestione di certe immagini mi restarono dentro. Di All’Italia mi si impressero versi eroici e guerreschi come «L’armi qua l’armi: io solo/ combatterò, procomberò sol io./ Dammi, o ciel, che sia foco/ agl’italici petti il sangue mio … Odo suon d’armi/ e di carri e di voci e di timballi». Erano immagini che associavo confusamente a quelle cruente che avevo visto dalle finestre di casa negli scontri tra partigiani e truppe naziste e fasciste (Testaccio era un rione di violente passioni politiche). Ma mi erano cari, e li ricantavo tra me e me, anche i versi luminosi di quelli che oggi si chiamano “canti pisano-recanatesi” e allora si chiamavano “grandi idilli”: «Quando beltà splendea/ negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi», «Primavera dintorno/ brilla nell’aria, e per li campi esulta». Non che ne capissi molto il senso, sebbene la professoressa – di cognome si chiamava Stella, come l’editore milanese amico del poeta – cercasse caparbiamente di spiegarcelo. Oggi ricordo quell’antico cimento con piacere e nostalgia, ma allora mi procurò non pochi tormenti. A dieci-undici anni non era facile imparare a memoria le poesie di Leopardi.
Soprattutto le Canzoni…
…certamente. In Leopardi non c’è la cadenza ritmica, cantabile dei versi di Manzoni…
Un’antipatia per Manzoni?
Tutt’altro. Per lui presi una cotta in quinta ginnasiale. Di ciascun capitolo dei Promessi sposi, un’altra giovane professoressa ci faceva scrivere riassunto e commento, e mi ci appassionai; a memoria l’ “Addio monti sorgenti”, “la notte dell’Innominato”, “la madre di Cecilia”, i cori delle tragedie, le Odi e gli Inni sacri più noti, ovviamente Marzo 1821, Il Cinque Maggio, La Pentecoste. Al liceo (il glorioso Liceo Virgilio di via Giulia) ebbi un bravo professore molto cattolico e manzoniano, tiepido e diffidente verso Leopardi. In conclusione furono anni di una grande scorpacciata manzoniana, che mi tornò utile quando, nel ’65, collaborai alla cura di Tutte le opere di Manzoni per l’Avanzini e Torraca, l’antenata della Newton Compton. Fu il mio esordio di editore-curatore di classici.
A proposito del mio professore di liceo (Carlo Filosa, autore di un’ancora utile storia della letteratura esopica in Italia) devo però aggiungere che fu proprio lui, involontariamente, ad accendere la mia passione per Leopardi. Quando si presentò al concorso di libera docenza, gli capitò in sorte, suo malgrado, di dover preparare in ventiquattro ore una lezione sulla non amata canzone Alla Primavera, e io – suo unico allievo, nel 1952, iscritto a Lettere – passai con lui un’intera giornata alla Biblioteca Alessandrina per tirar giù libri e riviste e prendere appunti. La docenza il professore l’ottenne, ma continuò a ritenere Alla Primavera una brutta poesia, arida e indigesta; mentre io ne rimasi affascinato, e ci sarei tornato su più volte, tanto da farne il centro focale del mio Olimpo abbandonato.
All’epoca, nella scuola e per la maggior parte della critica, Leopardi era soltanto il poeta degli “idilli”.
Fatte poche isolate eccezioni, era così, soprattutto nella scuola. La critica dominante era crociana e gli antagonisti, quelli che tentavano strade diverse, dovevano inevitabilmente fare i conti con essa: una situazione che oggi va storicizzata, non demonizzata. Comunque, per me il tuffo, la profonda immersione in Leopardi avvenne all’Università. Negli anni accademici 1952-53 e 1953-54, seguii contemporaneamente, all’Università di Roma, i corsi leopardiani di Natalino Sapegno e Giuseppe Ungaretti. Sapegno, un cattedratico solenne, teneva lezioni pacate, piuttosto monotone e soporifere, e spiegava Leopardi da post-crociano che aveva attraversato Gramsci e ed era tornato a De Sanctis. Del suo corso ho conservato le dispense fittamente postillate: pagine limpide e precise, che tanti anni dopo ho ripreso in mano per scrivere l’introduzione a un volume della Fondazione Sapegno (NATALINO SAPEGNO, Leopardi. Lezioni e saggi, a cura di Giulia Radin, Torino, Aragno,2006) Seguendo un metodo ordinatamente storicistico, quelle dispense partivano dalla produzione erudita dell’infanzia – con interpretazione sociologica dell’ambiente recanatese – per poi passare alle varie fasi della poesia e del pensiero, con una cauta apertura – una novità per quei tempi – all’ “ultimo Leopardi”, perché Sapegno aveva accolto, con la moderazione e la circospezione che gli erano proprie, la proposta dirompente della Nuova poetica leopardiana di Walter Binni uscita nel ’47, contemporaneamente al Leopardi progressivo di Cesare Luporini, altro saggio canonico della cosiddetta “svolta” nell’interpretazione complessiva di Leopardi.
Quelle di Ungaretti erano lezioni pirotecniche. Di solito arrivava in aula in ritardo, trafelato, con i ciuffi dei capelli bianchi ritti sulla testa, seguito dall’usciere carico di libri che il poeta-professore gli faceva portare e non apriva mai. Scriveva due o tre versi dell’Infinito sulla lavagna e ci si soffermava per altrettante lezioni, divagando tra Baudelaire, Mallarmé, Verlaine e Rimbaud, raccontandoci delle sue esperienze parigine, dei corsi di filosofia di Bergson che aveva seguito alla Sorbona, degli incontri con Picasso e Apollinaire. Spesso queste lezioni continuavano, per gli allievi più fedeli, me compreso, sulla vecchia “circolare rossa”, il tram che lo portava dal piazzale di San Lorenzo, prossimo alla Città Universitaria, a viale Aventino, vicino alla sua abitazione e non lontano dalla mia (in questo popolarissimo tram scomparso da tanti anni Pasolini ambientò una delle “scene romane” di Alì dagli occhi azzurri): tramvieri e passeggeri – erano altri tempi! – non mostravano alcuna sorpresa perché avevano imparato a conoscerlo. Agli esami, però, Ungaretti era severo e tendeva trappole. Quando toccarono al mio corso, chiedeva a bruciapelo: «mi parli dell’eleganza in Leopardi», senz’altra spiegazione. Si possono immaginare le risposte e le bocciature… A me andò bene perché, non essendo chiamato nel primo giorno dell’appello, ebbi il tempo di cercare la voce eleganza nell’indice dello Zibaldone a cura di Francesco Flora e di studiarmi le pagine in cui Leopardi espone la sua teoria di una scrittura elegante, con sprezzature, arcaismi o, viceversa, neologismi o forme colloquiali all’interno di una prosa modernamente classica. Il “tutto Leopardi” di Flora mi era stato regalato a Natale da mia madre, e divenne la mia Bibbia letteraria.
Beh, i regali di edizioni leopardiane nelle famiglie dei futuri critici non sono rari. Anche Gianfranco Contini racconta, nell’incipit di Radiografia di Leopardi, di aver ricevuto in regalo dai genitori, quando era «liceista», l’edizione Moroncini dei Canti, in due tomi.
Lasciamo da parte paragoni imbarazzanti col grande Contini. L’edizione Moroncini, quando frequentavo l’Università, era una rarità d’antiquariato. Per gli esami con Sapegno e Ungaretti, oltre al Flora, mi furono preziosi i commenti dei Canti che avevo nella biblioteca di famiglia, tra i quali mi portò fortuna quello di Bacchelli, da poco uscito nella scolastica della Garzanti. Carlo Muscetta, esaminatore insieme a Sapegno, mi chiese su quali commenti avevo studiato e io, appunto, gli citai Bacchelli: se ne compiacque, ne discutemmo un po’ e fui premiato con la lode.
Parlando di Bacchelli, ha menzionato la Garzanti. Si può dire che Lei abbia conosciuto, proprio grazie alla sua attività editoriale presso la Garzanti, ma poi anche alla Giunti, la maggior parte degli scrittori e intellettuali del Novecento. Ricorda di questa lunga esperienza un autore che ha mostrato un interesse particolare, una predilezione speciale per Leopardi, al di là di ciò che poi ha effettivamente scritto e pubblicato?
Alla Garzanti ho lavorato per 28 anni, dal ’64 al ’92, con vari ruoli: prima stando a Roma come consulente-collaboratore, poi entrando nelle redazioni e assumendone infine la direzione col conseguente trasferimento a Milano. A decidere del mio destino di “editoriale” fu l’incontro con Binni, che m’invitò ad assisterlo nella preparazione del suo Settecento destinato alla Storia della letteratura italiana della Garzanti, il cosiddetto “Cecchi/Sapegno”, e la frequentazione di Binni, che durò a lungo e divenne amicizia (un’amicizia tra discepolo e maestro), non poteva non essere una nuova, diversa immersione in Leopardi.
Certo, alla Garzanti, in quegli anni, conobbi non pochi scrittori, poeti e critici, tra cui, Volponi, Luzi, Fortini, Bertolucci, Caproni, Giudici, Raboni, Cerami, Baldacci, Pampaloni, Magris, Dante Isella. Ma in casa editrice si parlava poco di Leopardi, anche se nei “Grandi Libri” avevamo un’eccellente edizione dei Canti curata da un poeta e critico raffinato come Fernando Bandini. Nella Milano di allora non si respirava aria leopardiana, si parlava molto di una “linea lombarda”, nella poesia e nella tradizione culturale, i cui referenti erano Parini e i riformatori del «Caffè», Manzoni, Porta, la Scapigliatura e, al culmine, Gadda, gloria di Livio Garzanti che, ricorrendo a blandizie e ricatti psicologici, aveva costretto l’autore riluttante a licenziare l’incompiuto Pasticciaccio e a darlo alle stampe nel 1957: un successo di critica clamoroso, un “caso letterario”, che non si sarebbe più ripetuto nella narrativa garzantiana. Si sa che Gadda era un adoratore di Manzoni, mentre Leopardi gli era poco congeniale: ammirava la «nitidezza lunare» dei suoi notturni – che non era una gran scoperta –, giudicando superficiale e inconcludente il suo pensiero. In breve, a Milano e nell’ambiente editoriale in cui lavoravo, Leopardi restava in ombra. A lui non si addicono connotazioni di geografia letteraria, perché il suo spazio è l’infinito: Recanati c’è ma come luogo di una storia solitaria e sofferta dell’anima; e gli va stretto l’illuminismo progressista, fondamentalmente ottimistico, dei riformatori lombardi, al pari del liberalismo moderato dei fiorentini del Vieusseux.
Tra i colleghi e amici della Garzanti ho avuto Tiziano Rossi e il compianto Giovanni Raboni, due dei più noti esponenti di quella famiglia di “poeti lombardi”, tanto diversi tra loro ma accomunati da una certa vocazione antilirica, colloquiale e minimalista. Raboni apprezzava di Leopardi più la prosa che la poesia; la sua compagna Patrizia Valduga, poetessa geniale col gusto della provocazione, ha ostentato più volte il suo disprezzo per il Leopardi dei Canti: in una sua poesia ha scritto «tutti gli adolescenti segaioli,/ con l’acne che gli dà la depressione,/ adorano Leopardi, lune e duoli». Per lei Monti è infinitamente più grande di Leopardi.
Di solito, poeti e scrittori hanno il coraggio o la temerarietà di esternare le proprie legittime idiosincrasie, magari in termini più moderati di quelli della Valduga. Meno perdonabili sono quegli studiosi che, per dovere d’ufficio, si occupano di autori a loro quantomeno indifferenti. Un filologo d’alta scuola, frequentatore della Garzanti, una volta mi confessò che gli suonava goffo e ridicolo l’attacco dell’Infinito: «Come si fa a chiamare caro un ermo colle?». Questo stimato filologo si è applicato anche a Leopardi, ma, a leggerlo bene, ci si accorge che Leopardi non è nelle sue corde. Qualcosa di simile accade in musica: ci sono solisti e direttori d’orchestra che eseguono con tecnica impeccabile Mozart e Beethoven, senza trasmetterci alcuna emozione, senza restituirci nulla di quei giganti. La filologia dà buoni frutti quando si brucia nella comprensione totale del mondo dell’autore, nell’immedesimazione simpatetica con esso.
In conclusione, di Leopardi parlavo soltanto con Fortini o con Luzi, le rare volte che venivano in casa editrice. Poi c’è stata la grande avventura dell’edizione critica dello Zibaldone a cura di Giuseppe Pacella, nella quale ho avuto il sostegno di nuovi amici che non erano milanesi e non vivevano a Milano.
Lei mi fornisce quasi l’assist per passare alla successiva domanda. Quale ruolo crede che abbia giocato lo Zibaldone nell’evoluzione della critica su Leopardi?
Lo Zibaldone ha aperto nuove strade all’indagine della critica e della filologia. C’è stato un primo uso dello Zibaldone del tutto servile, ausiliare, una miniera inesauribile per annotare i Canti e le Operette morali…
…semplicemente un ipotesto.
Già, mentre oggi lo si considera giustamente come opera in sé, anomala, sfuggente a qualsiasi definizione o classificazione, ma che ha una sua autonomia. Anzi si parla addirittura di un “ipertesto”, di un’opera che contiene altre opere o tracciati di opere che tra loro si annodano: allo Zibaldone come ipertesto è stato dedicato il recente convegno dell’Università di Barcellona cui ha partecipato anche lei (il riferimento è al Convegno internazionale lo Zibaldone di Leopardi come ipertesto, svoltosi all’Università di Barcellona dal 26 al 27 ottobre 2012, a cura di Maria de las Nieves Muniz Muniz, che ne ha curato anche gli Atti; Firenze, Olschki,2013). Non va dimenticato però che sono stati gli scrittori, forse prima ancora dei critici, a vedere nello Zibaldone un modello per la prosa moderna. Si pensi agli scrittori della «Ronda»: lei sa che il Testamento letterario di Giacomo Leopardi è un’antologia dello Zibaldone uscita nel 1921 a cura di Vincenzo Cardarelli, con un saggio introduttivo firmato «La Ronda» ma dello stesso Cardarelli, che metteva a fuoco in particolare la teoria dell’«eleganza» funzionale a una prosa ad un tempo classica e moderna, quella che praticavano i rondisti, i prosatori d’arte di quel tempo. Era tuttavia un’interpretazione parziale, interessata, perché privilegiava lo stile a discapito dei contenuti, del pensiero.
Cosa non leopardiana, verrebbe da dire.
Ma è anche vero che i rondisti non erano tutti uguali: le etichette di scuole e correnti sono sempre approssimative e spesso ingannevoli. Ciascuno di loro ha avuto una sua storia personale: il manzoniano e leopardiano Riccardo Bacchelli è distante dal surrealismo barocco di Bruno Barilli (musicista e musicologo oltre che scrittore) e l’uno e l’altro non sono assimilabili a Emilio Cecchi o ad Antonio Baldini, più fedeli all’elzeviro, al “capitolo” elegante venato di un’ironia pungente nel primo, paciosa nel secondo. Voglio però ricordare un’altra importante antologia dello Zibaldone, uscita nel 1941, parecchi anni dopo quella di Cardarelli, col titolo Società, lingua e letteratura d’Italia. A curarla e introdurla fu Vitaliano Brancati che, a differenza di Cardarelli, metteva l’accento sulle pagine in cui Leopardi conduce un’acuta e impietosa analisi della società italiana, pagine non meno importanti di quelle letterarie e linguistiche.
Una piccola deviazione. Crede che se non avessimo conosciuto lo Zibaldone si sarebbe faticato a qualificare Leopardi come filosofo?
Schopenhauer e Nietzsche scrissero di Leopardi filosofo conoscendo, come tutti, soltanto i Canti e i CXI Pensieri (nel caso di Nietzsche anche le Operette morali): una prova, fra le tante, che la filosofia di Leopardi sta anche nella sua poesia. Però dalla scoperta e dallo studio dello Zibaldone il pensiero leopardiano è emerso in tutta la sua complessità e originalità.
Se è vero che Leopardi veniva considerato filosofo già nell’Ottocento, senza che si conoscesse lo Zibaldone, è altrettanto vero che il termine “filosofo” era usato con una certa larghezza; ricordo, per esempio, che anche Parini era ritenuto tale. Questo per dire che lo Zibaldone ha giocato un ruolo fondamentale nell’inquadramento di Leopardi come filosofo moderno.
Nella seconda metà del Settecento e anche nell’Ottocento il termine filosofo era inteso, prevalentemente, secondo l’accezione dei philosophes dell’Encyclopédie, nella vulgata sinonimo di “intellettuale”, così come letterato era traduzione di savant: i numerosi “Giornali dei letterati” sette-ottocenteschi, nati per imitazione del parigino Journal des savants, trattavano di varie materie, principalmente scientifiche. Lei citava il caso di Parini: infatti ancora nel 1870 Isidoro Del Lungo tenne un discorso al Liceo Dante di Firenze su Parini nella storia del pensiero italiano.
Ma Leopardi è un caso a sé, perché molto presto, già da Pietro Giordani, gli fu riconosciuta una forma di speculazione per così dire “organizzata” e bene individuabile. Leopardi parla di un suo «sistema», che è un sistema sui generis, lontano dalle sistemazioni filosofiche per rami e categorie, come in Aristotele o – per fare qualche esempio banale – in Kant e negli idealisti tedeschi. È un pensiero, il suo, in perenne movimento, che va in tutte le direzioni – etica, estetica, sociologia, antropologia, filologia, linguistica ecc. – e tutte le riannoda per sentieri labirintici culminanti nell’identità di parola e pensiero, poesia e pensiero. Ed è fondamentalmente un pensiero ontologico, che interroga l’essere passando per le sofferte esperienze dell’esistente, il quale è privato di certezze e perciò pone incessanti domande che non hanno risposte, è in balia di un nulla che però è un solido nulla, un vuoto che, per paradosso, ha la schiacciante pesantezza di una materia indistinta e arcana: «Ombra reale e salda / ti parve il nulla, e il mondo/ inabitata piaggia…». È superfluo sottolineare che questo sistema-antisistema, enigmatico e interrogativo, è di una sorprendente modernità: infatti se ne sono occupati, da differenti punti di vista, filosofi come Cesare Luporini, Alberto Caracciolo, Emanuele Severino, Massimo Cacciari, Sergio Givone, Salvatore Natoli. Ma questo interesse, spiccatamente filosofico, non deve mettere in secondo piano l’unità di pensiero e poesia: quello di Leopardi è un “pensiero poetante”, titolo heideggeriano di un libro famoso di Antonio Prete.
Restiamo sullo Zibaldone, passando però dalla filosofia alla filologia e alle vicende editoriali dell’opera. Potrebbe ricordarci come è nato e come si è evoluto il progetto di pubblicare lo Zibaldone di Pacella presso Garzanti?
Le peripezie dell’edizione Pacella le ho raccontate diffusamente in uno scritto pubblicato in un volume che raccoglieva le testimonianze della figlia Daniela e di amici dello studioso scomparso nel 1995, e poi l’ho ripreso nel mio volume La luna nel cortile. Quelle peripezie nacquero da una perversa congiunzione di insipienze editoriali e pregiudizi accademici. Pacella aveva lavorato per trent’anni al suo titanico progetto, prima sugli autografi della Nazionale di Napoli, poi nelle biblioteche recanatesi del Centro Nazionale di Studi Leopardiani e di Casa Leopardi, dove esplorò minuziosamente le fonti, i libri di cui il poeta si era servito. A spronarlo era stato Sebastiano Timpanaro, che con lui aveva curato gli Scritti filologici pubblicati nel 1969 da Le Monnier; ma per certi ambienti universitari, soprattutto settentrionali, rimaneva un irregolare senza cattedra da guardare con diffidenza (anche Timpanaro, accademico dei Lincei, era senza cattedra, per sue ragioni personali di nevrosi). Nel corso degli anni egli aveva generosamente dispensato correzioni al testo di Flora: se ne avvalse, per esempio, l’edizione dello Zibaldone a cura di Walter Binni ed Enrico Ghidetti (1969); e Antonio Prete, licenziando nel 1980 Il pensiero poetante, ringraziava Pacella per aver riscontrato tutte le citazioni dello Zibaldone e annunciava l’uscita imminente della sua monumentale edizione critica presso Adelphi. Senonché il contratto con Luciano Foà, fondatore e direttore dell’Adelphi, fu sciolto, perché lo specimen che Pacella gli aveva mandato venne giudicato negativamente da chi esercitava una forte influenza sull’editoria milanese e aveva un’idea della filologia lontana da quella di Timpanaro e Pacella: coltivava la filologia della “illeggibilità”…
…per l’accumulo di segni diacritici…
…per il feticismo delle minuzie, degli apparati irti di simboli e sigle, che alzano una barriera tra il testo e il lettore, anche il lettore più esperto. Poi Pacella ebbe altri rifiuti, dalla Mondadori e dalla Sansoni. Alla Garzanti approdò col patrocinio di Timpanaro – nostro consulente e collaboratore per la filologia classica – e con la mediazione della scrittrice Gina Lagorio, moglie dell’editore, che per Timpanaro aveva una stima e un’ammirazione sconfinate. Io presi in mano il progetto nel 1988, avendo la responsabilità dei “Libri della Spiga”, la collana di classici cui era destinato, ma in quel tempo Pacella era latitante, tardava a consegnare, un po’ per le delusioni subite, molto di più per la dolorosa perdita della giovane figlia Maria Grazia. Andai a fargli visita nella sua casa pisana e, con l’aiuto dell’altra figlia, Daniela, anche lei filologa classica, rimisi in moto la macchina ed elaborammo insieme un piano di lavorazione che doveva tradursi, come si è tradotto, in due volumi di testo e uno di apparato critico, note e commenti, indici. Ma il percorso fu assai travagliato per circostanze interne ed esterne alla casa editrice. A causa di dissesti finanziari, le redazioni si erano impoverite e non avevo più un redattore all’altezza del compito; soltanto nel febbraio del ’91 riuscii a far assumere una redattrice esperta, Giulia Farina, con la quale si stabilì un circolo virtuoso, sostanziato anche di amicizia tra me, lei e i Pacella padre e figlia. Ma si lavorava tra disinteresse, diffidenze e ostilità, anche per l’arrivo nella Garzanti di un dirigente che, quando era stato in un’altra casa editrice, aveva posto la condizione a Pacella di amputare drasticamente apparato e note, cioè il frutto delle fatiche di trent’anni: cosa che aveva fatto infuriare Pacella.
Il che la dice lunga sulla sensibilità filologica di alcuni operatori culturali.
Certi dirigenti editoriali, per nascondere la propria mancanza di autonomia, motivano con giudizi avventati i rifiuti che sono stati decretati dai responsabili amministrativi, per calcolo di mercato.
A turbare ulteriormente il clima sopraggiunse la polemica con Emilio Peruzzi, amplificata dalla stampa. Tra l’ ’89 e il ’90 Peruzzi aveva pubblicato con la Normale di Pisa i primi tre volumi dell’edizione fotografica dello Zibaldone (che si sarebbe conclusa nel ’94 col decimo volume), dissentendo, nella sua introduzione e in articoli che l’avevano preceduta, dai metodi di Timpanaro e Pacella – anche lui era per la filologia delle minuzie – e sostenendo che il famoso «scartafaccio» era in massima parte una “bella copia” in nitida scrittura e che, perciò, la riproduzione fotografica sostituiva l’edizione critica, la rendeva inutile.
Nonostante tante avversità, andammo avanti febbrilmente, con l’incoraggiamento che mi veniva da autorevoli leopardisti estimatori e amici di Pacella, che sarebbero divenuti anche miei carissimi amici: Luigi Blasucci, Antonio Prete e, soprattutto, Sebastiano Timpanaro che mi faceva lunghe telefonate e mi ammoniva affettuosamente che, se non avessi portato a termine l’edizione, avrei chiuso la mia carriera con una sconfitta vergognosa. Fu una sfida contro il tempo e il perfezionismo di Pacella: bisognava chiudere presto perché sapevo con certezza che presto i “Libri della Spiga” sarebbero stati soppressi. Alzai dunque uno sbarramento, impegnandomi per la presentazione dell’opera all’VIII Convegno internazionale di studi leopardiani, su Lingua e stile di Giacomo Leopardi, che si sarebbe svolto a Recanati dal 30 settembre al 5 ottobre 1991. Non fu facile accedervi perché il convegno si sarebbe aperto con una relazione di Giovanni Nencioni proprio sull’edizione Peruzzi; ma il presidente del Centro Studi Franco Foschi – anche per l’amicizia e la stima che lo legavano a Gina Lagorio – trovò una soluzione, inserendo all’ultimo momento, nel programma, un incontro sull’edizione Pacella da tenersi in coda ai lavori. I presentatori, insieme al curatore, furono Luigi Blasucci, Mario Marti e Antonio Prete; di Timpanaro – che notoriamente non parlava in pubblico – fu letta una testimonianza in cui raccontava l’inizio della sua collaborazione con Pacella e argomentava con lucidità ed equilibrio il valore della sua impresa filologica. Poi, per Pacella, seguì un periodo di gratificanti riconoscimenti: recensioni, presentazioni in diverse città italiane, inviti a tenere lezioni sul “suo Zibaldone” a studenti universitari e delle scuole superiori.
L’edizione Pacella è stata il fatto più importante della mia vita editoriale, quello che mi ha segnato di più, lasciandomi un’eredità di interessi, di entusiasmi, di amicizie che sono anche all’origine del mio attuale impegno nel Centro Studi di Recanati.
Se parliamo di Pacella non possiamo non parlare di Peruzzi. Sul piano strettamente filologico come ha vissuto, da studioso, la querelle Pacella-Peruzzi? In tutto e per tutto ha sposato, e sposa, la posizione filologica di Pacella o su alcune questioni era con Peruzzi?
Peruzzi l’ho conosciuto e frequentato più tardi, quando nel 2007 si costituì il Comitato scientifico del Centro Studi di Recanati, di cui fu membro autorevole. Era uno studioso – scomparso anche lui, nel 2009 – di eccezionale cultura, conversatore amabile e arguto: con lui strinsi un’amicizia tardiva ma schietta, non offuscata dalla polemica con Pacella. Restò sempre fermo sulle sue posizioni, sull’idea dello Zibaldone come “bella copia”, che io continuo a non condividere. Si può immaginare che Leopardi abbia ricopiato alcune pagine quando, tra il 1826 e il 1828, progettava di ricavarne un Dizionario filosofico e filologico per l’editore Stella. Ma a me sembra che la tesi della “bella copia” quasi integrale non regga: nella sua breve esistenza, afflitta da angustie e malanni, è pensabile che Leopardi abbia trovato il tempo e l’agio di ricopiare le centinaia e centinaia di pagine dei suoi appunti e pensieri? Perché non restano tracce di minute? Come spiegare i lapsus e le citazioni esplicitamente a memoria? Dal canto mio resto fedele alla definizione che dello Zibaldone dette Contini: «un diario meramente interno e mentale, redatto in una prosa spontanea e non costruita, provvisoria nel senso che frequentemente accumula i sinonimi […] e segna con ‘ec.’ sincopi facilmente integrabili dalla memoria». Una scrittura, come dice Leopardi stesso, «a penna corrente».
Può sorprendere che tante pagine abbiano una compiuta perfezione di stile, ma non dobbiamo misurare sul nostro metro la scrittura di un genio. Al più, si ammetterà con Blasucci che un “pezzo” famoso come quello del “giardino della souffrance” (4175-4177) – e altri ce ne sono – non è «a penna corrente» nel senso di “scritto di getto” a mo’ di appunto o di abbozzo, perché «letterariamente rifinito e atteggiato», il che non autorizza a parlare di “bella copia”.
Bene, conclusa questa lunga parentesi editoriale e filologica, passiamo ora alla critica, soffermandoci sul Leopardi di Giulio Bollati. Quando si parla di Bollati si parla naturalmente della Crestomazia della prosa. Quale contributo crede che la sua Introduzione alla Crestomazia abbia apportato all’interpretazione di Leopardi? E quali punti di quel saggio crede che siano superati o non siano più sostenibili?
Senza dubbio è benemerito il lavoro che Bollati ha condotto sulla Crestomazia della prosa, ricercandone le fonti e illustrando l’uso particolare che Leopardi ne ha fatto. Altrettanto pregevole è il suo saggio introduttivo, che offre una ricostruzione originale della personalità del poeta, inquadrandola nella società e nella cultura del suo tempo. Non mi persuade però la sua insistenza sulla “aristocraticità” del pensiero leopardiano. Affezionato alla figura, da lui disegnata, del filosofo e letterato gentiluomo “alla Filippo Ottonieri”, Bollati ha rinchiuso Leopardi in una posizione troppo aristocratica, che cancella la simpatia e l’ammirazione che Leopardi sempre mostrò verso le classi emarginate, le quali, con il loro lavoro, provvedono al sostentamento della nobiltà parassitaria e della borghesia intellettuale.
In un pensiero dello Zibaldone (131) parlando della vita inattiva e corrotta dei giovani dei ceti medi o alti, egli postilla: «Bisogna escludere dai sopraddetti, i negozianti gli agricoltori, gli artigiani, e in breve gli operai, perché in fatti la strage del mal costume non si manifesta altro che nelle classi disoccupate». L’attenzione affettuosa verso costoro si riverbera nelle figure dell’artigiano, dello zappatore, del legnaiolo della Quiete dopo la tempesta e del Sabato del villaggio, persino nella donzelletta che in mano, con femminile grazia e vanità, reca il «mazzolin di rose e di viole», mentre sulle spalle porta il pesante «fascio dell’erba» che ha mietuto nei campi: figure della vita attiva e incorrotta, evocate anche nella celebre lettera sulla visita alla tomba del Tasso, scritta da Roma, al fratello Carlo, il 20 febbraio 1823. Dunque, secondo me, Bollati dà un’interpretazione parziale, “nobilesca”, che ha il vizio opposto a quello delle forzature in chiave socialista-marxista.
Mettiamola così: Leopardi, come tutti i grandi, si presta a tutto. Tutti se ne possono “appropriare”. È un rischio cui si espone il genio. Passiamo a un altro argomento: Leopardi e il mondo dell’informatica. Sul web circolano liberamente e senza alcun controllo testi leopardiani, e più in generale di tutta la letteratura italiana e straniera. Le chiedo: quali sfide questo nuovo scenario lancia alla filologia? Non si rischia con la libera circolazione dei testi e delle edizioni (anche ottocentesche – fuori diritti – o prive di attendibilità scientifica) di vedere vanificato, o quanto meno ridimensionato il lavoro dei filologi, dei critici e più in generale degli addetti ai lavori?
Il pericolo c’è, ed è facile constatarlo. Non possiamo più fare a meno dell’informatica e della “rete”, ma bisogna ricorrervi con un discernimento tanto più attento e scrupoloso quanto più quei mezzi sono di facile e comodo accesso. Nel 1998 curai, con lo Studio Lexis di Pasquale Stoppelli, un cd-rom con tutte le opere di Leopardi nelle migliori edizioni fino allora pubblicate e con varie modalità d’interrogazione. Dopo quella data sono però uscite altre edizioni critiche, per esempio le traduzioni dei poeti greci e latini e i volgarizzamenti in prosa, le une e gli altri a cura di Franco D’Intino. Lo studioso serio non può ignorarle e non deve citare quelle opere da edizioni superate.
Il mio cd non è in rete, ormai lo si trova solo in antiquariato, ma in rete ci sono tante edizioni di Leopardi e di altri autori, alcune buone, affidabilissime, altre no. Il sito “Biblioteca Italiana” della Sapienza mette a disposizione più di 1600 testi di classici italiani, dal Medioevo al Novecento, consultabili e scaricabili, fondati sulle più autorevoli edizioni di riferimento: dello Zibaldone c’è il testo Pacella, delle altre opere di Leopardi i testi del cd Lexis.
Sicuramente “Biblioteca Italiana” è una risorsa preziosa per studiosi e studenti di letteratura italiana. Tuttavia la maggior parte degli utenti del web, seguendo i risultati del motore di ricerca Google, è spinta a consultare siti con edizioni non aggiornate. La sensazione è che nel leggere i testi questi utenti tornino indietro di cento anni, azzerando, per lo Zibaldone, i progressi fatti dalla filologia nel Novecento. Viene da pensare, inoltre, che fino a quando c’era l’esclusiva delle case editrici nella diffusione culturale il pubblico era guidato e in certo qual modo anche “tutelato” nella fruizione dei testi. Il mondo dell’editoria era “governato” – non sempre, ma neanche così raramente – da persone qualificate sotto il profilo scientifico. Era difficile perciò che un lettore medio potesse avere tra le mani un’edizione ottocentesca fuori commercio o non affidabile sul piano testuale. Ora invece è come se si corresse il rischio di una scissione, tra un pubblico non colto che usa il web per consultare e citare testi in edizioni “libere”, come quelle ottocentesche, e che non si pone come un tempo il problema di acquistare edizioni cartacee, scientificamente affidabili, o di consultarle in biblioteca; e un pubblico colto che si avvale, o almeno così dovrebbe essere, di edizioni accreditate, siano esse cartacee o informatiche.
Non parlerei di una scissione così netta, perché anche alcuni “addetti ai lavori” cadono nella tentazione di copiare e incollare da siti on line senza fare le dovute verifiche.
Mi viene da dire una cosa, che molti, forse, non hanno il coraggio di dire. Capita, neanche così raramente, che uno studioso, e mi riferisco soprattutto alle nuove generazioni di studiosi, nel riportare un passo dello Zibaldone in un proprio lavoro, prenda il passo in questione, per comodità, dal web (dall’edizione Carducci nella maggioranza dei casi) e dichiari in nota di aver usato un’edizione critica recente, senza controllare su quella edizione il brano citato.
Queste malefatte, ripeto, nascono dalla mancanza di rigore professionale, e capitano anche indipendentemente dall’informatica, dall’uso del computer. Nel 1998 uscì un “Oscar Mondadori” che ci faceva leggere i Canti, quelli di cui non restano gli autografi, secondo l’edizione Starita non corretta: per esempio, nella Ginestra «madre è di parto, ed in voler matrigna», invece di «madre è di parto e di voler matrigna». Cosa era successo? Il curatore dichiarava di aver seguito il testo critico di Peruzzi, ma, per quei canti, aveva mandato in stampa le prime edizioni, ignorando le successive modifiche e correzioni che, ovviamente, l’apparato di Peruzzi riporta. È un momento di grande rischio: d’altra parte ci troviamo nel mezzo di una rivoluzione probabilmente più sconvolgente dell’invenzione della stampa. Quando fu inventata la stampa, le persone colte disdegnavano le edizioni a stampa e continuavano a comperare e a usare i codici, le copie manoscritte, perché la stampa inizialmente era un disastro, piena di errori.
La situazione, oggi, è più grave perché edizioni corrotte o sbadate hanno, con il web, una diffusione e fruibilità senza precedenti. Ci sarà molto lavoro per i filologi, che si dovranno convertire, perché dovranno penetrare nella mutevolezza, nella labilità della rete. È chiaro che il filologo delle carte e degli scartafacci di continiana memoria rischia di diventare anacronistico.
Si può dire che stia nascendo una nuova filologia, che potremmo definire “filologia elettronica”, o meglio ancora “filologia dei testi elettronici”.
Non so immaginarla, perché come fare filologia su testi per loro natura erratici? Mentre correggo un punto sbagliato, il sito in questione può cambiarmelo, da un momento all’altro: le “varianti” nel web sono, per così dire, istituzionali, non sono più le “varianti” della filologia che conosciamo.
Volevo chiederLe, inoltre, un parere sulla scelta da parte di un gruppo di utenti di Wikisource di caricare integralmente l’edizione Carducci dello Zibaldone, già reperibile peraltro su altri siti, ma in formati diversi (pdf ecc.), da cui non è possibile estrapolare passi. Mi sembra però che le sue precedenti considerazioni soddisfino in parte questa domanda…
Si tratta sicuramente di un’impresa apprezzabile, che suscita però una serie di domande. Ciò significa che la maggior parte degli utenti del web – mi riferisco principalmente a un pubblico di non specialisti, ma non solo – usa e userà quella edizione, per ragioni di praticità. C’è di più. L’anomalia, almeno per chi abbia una formazione filologica tradizionale, è che un testo, come nel caso dell’edizione Carducci, venga immesso on line e reso fruibile al pubblico ancor prima che siano completate le verifiche di conformità con l’edizione cartacea di riferimento. Tale controllo avviene infatti in movimento, in diacronia. Ci sono al momento pagine perfettamente aderenti all’edizione cartacea e pagine che presentano difformità, ancora da correggere. Non so sinceramente fino a che punto questo metodo, oltre a non avere rigore scientifico, sia un servizio al lettore. Le conseguenze possono essere di varia natura. Può capitare che un utente citi nel frattempo da quella edizione trascinandosi dietro le temporanee incongruenze testuali. Può accadere anche che un revisore, filologicamente non rigoroso, cali sul testo di Carducci (arbitrario per molti versi) le sue norme grafiche, convertendo, ad esempio, accenti acuti in gravi, o viceversa: viene così a prefigurarsi una possibile contaminazione e stratificazione di interventi. C’è tutta una serie di rischi che non sono considerati come si dovrebbe…
Il caso che mi cita conferma quanto le dicevo. Lo Zibaldone, più esattamente i Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura curati da una commissione presieduta da Carducci, pubblicati da Le Monnier, in 7 volumi, tra il 1898 e il 1900, restano un documento storico di grande importanza. È lodevole l’averli messi in rete, perché pochi di noi li posseggono e il consultarli può tornare utile anche ai filologi, prescindendo dal disinvolto e censurabile uso di cui abbiamo parlato. Lei mi dice che ha riscontrato errori vari rispetto all’originale, precisandomi che quegli errori sono per loro natura provvisori, che potrebbe non trovarli più (e magari trovarne degli altri) in una successiva consultazione del medesimo sito. Dunque, come regolarsi? Allo stato attuale il computer non mi soddisfa, devo stare sull’avviso e, se ne ho necessità “filologica”, devo andare a fare i miei riscontri in biblioteca, alla vecchia maniera.
Sulla questione, dunque, non è il caso d’insistere, sicché salto a un’altra domanda, di tutt’altro genere. Lei è anche uno studioso di Giuseppe Gioachino Belli. Come ha vissuto e fatto convivere dentro di Lei questi due autori, apparentemente così lontani?
Malissimo.
Come malissimo? C’è qualcosa che li lega reciprocamente ai suoi interessi?
Malissimo perché convivono in conflitto. Sono due mondi, Leopardi e Belli, tra loro distanti e incomunicanti, sicché, per passare dall’uno all’altro, s’impone un’inversione di rotta mentale e psicologica. Coincidenze biografiche e culturali sono ravvisabili: entrambi sudditi dello Stato pontificio, hanno avuto a che fare con preti, teologia e catechismo; avevano in comune anche alcune conoscenze o amicizie: l’abate Francesco Cancellieri, Francesco Cassi, Pietro Giordani, Giuseppe Melchiorri (cugino di Leopardi) e Giulio Perticari; la donna amata dal poeta romano fu la marchesina Vincenza Roberti, nipote di quella marchesa Volumnia cui Giacomo dodicenne indirizzò la burlesca “letterina della Befana”. Come Leopardi, Belli nutrì la sua cultura, oltre che con la Bibbia, con gli illuministi, soprattutto con la lettura di Rousseau e Voltaire (scarsa, invece, era la sua conoscenza dei classici antichi, specialmente dei greci); con i romantici, in letteratura e in musica, andò più avanti di Leopardi per motivi anagrafici (morì nel 1863, ventisei anni dopo il Recanatese). Belli aveva letto i Canti nell’edizione Piatti del 1831, e li aveva schedati nel suo Zibaldone, non paragonabile a quello leopardiano neppure alla lontana, perché è uno dei tanti “magazzini” in uso allora e prima di allora, una congerie di riassunti e schedature di libri e articoli, dove di rado compaiono giudizi; Leopardi non seppe nulla dei suoi clandestini sonetti romaneschi, anche se con ogni probabilità lo conobbe di persona nel secondo soggiorno romano, tra il 1831 e il 1832.
Gli accostamenti si fermano qui. La loro creatività segue due strade opposte. Quella di Leopardi è costantemente ascensionale, parte dall’esperienza del “sensibile”, degli accadimenti interiori ed esteriori, per scalare le vette di un pensiero vertiginoso, che interroga l’altrove – la luna, il firmamento, la Natura, il Fato – sul senso dell’essere e dell’esistere; e il poeta reinventa una lingua, come ho detto, insieme classica e moderna, che resta sempre casta, purissima, anche nei moti di ribellione e nella satira. Belli trova la sua verità di poeta, abbandonando una lingua che definisce «fradicia per sette secoli di vita» e scegliendo un dialetto infimo, quello della plebe (non popolo) di Roma. La sua è una strada tutta in discesa, è un inabissarsi nell’inferno di una subumanità tragica e buffona, nutrita di superstizione, pronta a usare il coltello senza rinunciare alla corona del rosario, avida di cibo, di vino e di sesso. Hanno entrambi una visione negativa della vita e del creato, ma «il brutto/ poter che, ascoso, a comun danno impera» di Leopardi, metafisica proiezione del Male che governa l’universo, non è paragonabile al Cristo di Belli che, sulla croce, ha sparso per i potenti e prepotenti il sangue, per i derelitti il siero (così nel sonetto Li du’ ggener’umani). Qui c’è la bestemmia che solo un cattolico in crisi poteva inventare, negando addirittura la grazia salvifica della Redenzione per gli “umili”: gli umili belliani non innocenti, non manzoniani. Quella bestemmia il poeta la fa pronunciare dal plebeo ignorante, nel quale si è trasferito e mascherato: un’operazione mimetica ambigua, estranea a Leopardi.
Dunque non so dirle perché mi sono interessato quasi contemporaneamente a Leopardi e a Belli, ma assai di più al primo. Sono i due più grandi poeti italiani dell’Ottocento: due geni che forse, in quanto opposti, possono illuminarsi a vicenda.
Ma Belli non diverrà mai universale come Leopardi, non tanto per l’ostacolo del dialetto quanto per una minore ampiezza e profondità di pensiero e di cultura, ancor più perché la sua personalità è scissa tra pubblico conformismo e clandestina rivolta dissacratoria. Nella sua produzione in lingua, destinata alle recite accademiche e quantitativamente superiore a quella dialettale, non c’è nulla che faccia presagire il genio dei Sonetti romaneschi: la si studia perché ci sono i Sonetti, i quali, nella loro debordanza numerica (2279), restano un’opera non sistemata, non rifinita e licenziata dall’autore, sicché, accanto a capolavori assoluti, presentano non poche cadute nell’occasionale e convenzionale, nella ripetitività meccanica di temi e stilemi. È un automatismo, dell’irrompente vena comica e della straordinaria maestria linguistica e metrica, che Belli stesso confessò in una lettera all’amica attrice Amalia Bettini: «Conosco il tasto dell’ilarità. Tocco quello, ed esso fa l’uficio suo. Io rimango intanto freddo e malinconico».
L’ultima domanda. Secondo lei, Leopardi ci lascia un messaggio ultimo?
Mah. Tutti i grandi poeti ci lasciano un messaggio ultimo, che quindi ultimo non è… È una battuta… però non credo nel “messaggio ultimo”. Più esattamente, penso che ad attribuire messaggi ai poeti siano i posteri, piegandoli alle loro diverse e opposte ideologie, che mutano o si ripropongono da una generazione all’altra.
Leopardi, come è noto, si propose di scrivere una «Lettera a un giovane del 20° secolo» (l’appunto è nei “Disegni letterari” e nello Zibaldone), ma ci rinunciò perché quello che aveva da dire ai futuri giovani (e non giovani) era già in tutta la sua opera… e poi, secondo me, con l’umorismo scettico delle Operette morali, lasciò che i posteri la scrivessero loro quella lettera, prevedendo che avrebbero combinato, scombinato e ricombinato a loro piacimento i suoi pensieri, come in un puzzle.
(2012)
Ho molto apprezzato, Andrea, la riproposizione da parte tua, nel presente blog, dell’intervista su Leopardi rilasciata dal prof. Lucio Felici a Roberto Lauro nel 2012. L’ho letta con vero piacere: mi sono commossa al ricordo di Natalino Sapegno, grande critico letterario e accademico, con cui sostenni l’esame biennale di Letteratura Italiana (quell’anno il corso monografico da lui tenuto riguardava l’Ariosto: ne conservo ancora le preziosissime dispense). Una frase che Sapegno ripeteva spesso nel corso delle sue lezioni mi è rimasta impressa:” La Letteratura e’ in qualche modo la forma di tutta la nostra vita”. Un caro saluto, Fiorella.
La breve presentazione da me fatta, Fiorella, dell’intervista del prof. Lucio Felici, prendeva le mosse (come in effetti il tuo commento conferma) dalla cognizione del valore alto ed esaustivo del testo proposto: un rigoroso e nel contempo affascinante percorso all’interno della Letteratura Italiana, laddove campeggia la figura del grande Recanatese, nel giorno anniversario della sua nascita. Grazie per la frase di Natalino Sapegno da te citata, e un caro saluto