Con vivo piacere offro alla lettura, con il consenso dell’autore, il testo critico di Franco Campegiani relativo alla presentazione del romanzo di Ninnj Di Stefano Busà SOLTANTO UNA VITA(presentazione avvenuta a Milano il 16 maggio scorso):
Romanzo a sorpresa di Ninnj Di Stefano Busà
(“Soltanto una vita” – Kairòs Edizioni)
Ninnj Di Stefano Busà – lo sappiamo – è una delle più accreditate firme della pagina poetica nazionale. Notissima come poetessa ed anche come critico letterario, oggi ci sorprende con questo testo pubblicato dalla Kairòs di Napoli e prefato dall’illustre Prof. Nazario Pardini, affrontando un genere di scrittura per lei nuovo, la narrativa. Una vera e propria curiosità, pertanto. Una primizia, non soltanto per i suoi lettori abituali, ma anche per un pubblico più vasto, maggiormente sensibile verso questo genere di letteratura. “Soltanto una vita” è un romanzo molto particolare, dove lo stile narrativo si arricchisce di una vena poetica sempre fresca e felice, in una scrittura limpida e comunicativa, intrisa di profonde riflessioni filosofiche. Qualunque genere affronti, la penna della Busà ha le medesime caratteristiche: è poetica e filosofica nello stesso tempo.
Chi conosce la sua poesia sa che essa è profondamente pensosa. La sua prosa, viceversa, risulta intrisa di poesia, e ciò contraddice il luogo comune secondo cui il filosofo ed il poeta non sarebbero compatibili tra di loro. Evidentemente c’è un pensiero filosofico che si radica nella poesia (non razionalistico), così come c’è un sentimento poetico radicato nella filosofia (non sentimentalistico). Ma qual’è il tratto veramente innovativo di questa scrittura? Della contemporaneità condivide l’aspetto fondante, e cioè il senso del relativo: il sentimento doloroso del limite proprio di ogni avventura esistenziale; la precarietà e l’angoscia del vivere; la coscienza della consunzione, del logoramento, della fine. Ma tutto ciò in Ninnj si incontra e si scontra con un vivo desiderio dell’incorruttibile e dell’assoluto, dando vita ad una pagina letteraria incandescente, dove ad animarsi è il fantasma della frattura, fantasma che paradossalmente evoca la reciproca appartenenza dei due poli tra di loro.
Ne vengono sfinimenti, sconfitte, ma insieme rinascite interiori, nella consapevolezza di appartenere ad un disegno universale inconoscibile, cui tuttavia ci si affida religiosamente. Una religiosità, direi, di ascendenze keerkegaardiane, dove la separazione del divino dall’umano funge paradossalmente da propellente della fede, nella certezza di un ritorno nel cuore dell’eterno al termine dell’avventura esistenziale. E sono esattamente questi i temi che emergono anche nel romanzo di cui ora ci occupiamo. “Soltanto una vita” è la storia di una famiglia colpita da gravi sventure, ma capace di reagire e di risorgere dalle ferite con rinnovati slanci ed invincibili ardori, facendo ricorso all’amore in tutte le coniugazioni possibili, ma soprattutto puntando lo sguardo verso l’assoluto, che è e resta la vera fonte battesimale di ognuno di noi, come di ogni espressione vivente.
Potrebbe sembrare, questo, un facile ed ingenuo ottimismo per tanti intellettuali à la page, pronti ad arricciare il naso di fronte a tutto ciò che ha sapore di incanto, di innocenza, di purezza, di positività. Si ritengono scaltri e smaliziati, costoro, mentre invece hanno paraocchi che non consentono di vedere come positivo e negativo, incanto e disincanto, non sono altro che facce distinte d’una stessa medaglia. E in fondo hanno pregiudizi simili a quelli dei cosiddetti “incantati”, degli imbambolati, seppure di segno contrario. Entrambi separano spocchiosamente il Nero dal Bianco, il Bene dal Male. Al contrario, l’incanto di cui parla la Busà non esclude il disincanto, ma lo include entro i propri confini. E’ un incanto che si fa carico del disincanto, una gioia che porta sulle proprie spalle il dolore. E lo fa senza battere ciglio, come risulta fin dalla frase posta ad esergo del libro: “Credere nella vita / vuol dire accettare anche il peso del suo dolore”.
Il bianco non esclude il nero, della cui vicinanza ha bisogno proprio per potersene differenziare. Altrettanto il Bene, per crescere, ha bisogno del Male con il quale si deve confrontare. Non lo può eludere, ma se ne deve alimentare. C’è dunque un Male che fa Bene, un Male che contribuisce alla costruzione della coscienza, anziché alla sua distruzione. Intendo dire che gli orizzonti della scrittrice sono di ordine morale, non moralistico. La differenza è fondamentale, perché dove il moralismo divide, la moralità abbraccia tutto con ineffabile amore. E sono davvero tanti gli spunti che potrebbero essere estrapolati dal libro per convalidare l’assunto.
Mi limito a citare le frasi finali del testo, che trovo particolarmente illuminanti e significative: “Le risorse stanno in noi, basta saperle cogliere, diramarle, veicolarle e trasmetterle ai nostri figli, senza ostentazione o vanità, con efficacia e semplicità, senza tentennamenti… Veniamo al mondo per amarla questa vita, l’unica che abbiamo, non per opporci ad essa o per oltraggiarla, e se talvolta ne veniamo feriti, ebbene si, tiriamo fuori tutto il coraggio, l’ardimento, la forza morale di cui siamo capaci per lottare strenuamente contro il male”. Una lotta che è anche un abbraccio, come si può vedere, perché il male vissuto in tal modo finisce per essere mirabilmente costruttivo. E sta qui, direi, l’ulissismo di questa visione della vita.
La cultura contemporanea, approdata da tempo ai temi del Nulla, del Nonsenso e del Vuoto, del Naufragio a senso unico, gronda a mio parere di orfismo ed ha bisogno di incrementare quella fede nei valori positivi il cui depositario è Odisseo. Cosa fa invece Orfeo? Caduto in disgrazia, finisce nella disperazione e nella follia, mentre Ulisse, a dispetto delle sconfitte, è sempre spinto in mare aperto con rinnovati ardori. Tuttavia egli conosce frustrazioni e naufragi, per cui non ha alcunché di tronfio, di arrogante o presuntuoso. Non è un drago sputafuoco ed è umilissimo nella sua fierezza, tant’è che si fa chiamare Nessuno. E’ un Nulla e un Tutto nello stesso tempo, una forza dell’equilibrio, una potenza della Natura. E credetemi: queste digressioni non sono peregrine, ma fondamentali per mettere a fuoco la weltanschauung della nostra scrittrice.
C’è un’esperienza letteraria importante, nel panorama culturale sostanzialmente orfico dei tempi attuali, che in qualche modo raggiunge l’ulissismo e di cui è qui opportuno parlare. Mi riferisco a Giuseppe Ungaretti. Ricordiamo i famosi versi dell’Allegria? “E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare”? Ebbene la visione del mondo della nostra scrittrice si trova su questo stesso binario, in questa medesima lunghezza d’onda. E’ una fede nella vita che cresce e si rafforza con l’esperienza del dolore. E a questo punto è opportuno a mio avviso ricordare un’altro importante percorso letterario ed umano, davvero odisseico, dei tempi attuali: quello di Alda Merini, di cui non a caso la Di Stefano Busà è stata confidente ed amica.
E qui si giuoca, a parer mio, un passaggio particolarmente importante per la cultura del nostro tempo. Siamo nel Postmoderno, dove l’antropocentrismo in ogni sua forma è crollato e l’umanità ha finito per disperdersi dal centro nelle periferie del creato. Ebbene, a me sembra che nella storia che Ninnj descrive, i protagonisti facciano un percorso alternativo, sperimentando un’altra e diversa centralità: la centralità di se stessi. Così l’uomo, non più al centro dell’universo, qui è posto, o si pone, al centro di se stesso. E la sua è soltanto una vita nel pullulare sconfinato di vite di cui si popola l’universo. Gli attori di questo romanzo vivono nella consapevolezza che la loro è soltanto una vita, solo una tessera nell’immenso mosaico. Danno il meglio di sé, con il massimo impegno, senza tuttavia sopravvalutarsi, senza illudersi di essere i protagonisti esclusivi della scena.
E dire che sono personaggi molto potenti! Appartengono all’alta società, sono direttori di banca, ingegneri petroliferi, manager. Ma non insuperbiscono, il che è straordinario. Nell’immaginario collettivo, lo sappiamo, questo ceto sociale naviga negli ori e nei privilegi, nelle feste e nei lussi sfrenati, per non dire dell’affarismo spericolato. Qui si fa portatore, invece, di impegno etico, di morigeratezza, di affetti limpidi, di valori morali. E tutto senza cedimenti retorici. Una rivoluzione! Ricordiamo il detto evangelico? “E’ più facile che un cammello entri nella cruna di un ago che un ricco nel Regno dei Cieli”? Questo romanzo sembrerebbe smentire l’assunto, ma in realtà lo conferma, in quanto il motto suddetto evidenzia la difficoltà per i potenti, non l’impossibilità, di vivere con sentimenti di rispetto e di altruismo, di fraternità e di amore (difficoltà, d’altro canto, comune agli uomini e alle donne di qualunque ceto e posizione sociale).
Il romanzo si apre con una descrizione paesistica stupefacente. Siamo nella Tierra del Fuego, all’estremità meridionale del continente americano, tra lo stretto di Magellano e Capo Hoorn. Un’alba rosata si dipinge sull’ampia baia dopo l’orribile nubifragio notturno. Da un lato le colline solenni, dall’altro l’oceano atlantico che “si apre come una valva sul fondale lussureggiante di un’immensa esplosione di luce”. Un vero e proprio rapimento estatico di fronte alla bellezza selvaggia di una natura incontaminata, crudele e dolcissima nello stesso tempo. E’ lo scenario adatto per porre il lettore nella condizione psicologica idonea ad entrare nelle pieghe del romanzo, tutto giuocato, come abbiamo visto, sulla compenetrazione armonica del positivo con il negativo. C’è un parallelismo calzante tra le vicissitudini violente, ma rigeneranti, del creato e gli eventi dolorosi, ma corroboranti, dell’esistenza umana.
Nazario Pardini, in prefazione, parla di “un grande mélange di cospirazioni naturistiche, di panorami mozzafiato, di forze evocative, di scavi psicologici e di intrighi che mai si allontanano da una verità, specchio dei nostri giorni”. Realismo, dunque. Un realismo vitalistico, energetico, diverso da quelle scuole del realismo che indulgono al pessimismo, al disincanto, al trionfo dello squallore e del Nero. Ascoltate questa descrizione: “Sulla sabbia sono ancora evidenti i segni lasciati dalle raffiche di vento; disseminata di oggetti dei più disparati, la spiaggia appare come uno scenario infernale; sparsi un po’ ovunque, in modo disordinato e violento, vi sono i segni di una lotta all’ultimo sangue, con quegli elementi che la natura ha scaraventato in aria e ammassato alla rinfusa”. E’ da questa violenza che la natura si rigenera, dando origine a nuove aspettative e a nuovi cicli vitali.
La stessa cosa accade negli eventi della vita umana, dove il lieto fine non è scontato, ma può anche esserci, come in questo caso, ed è il frutto di un impegno strenuo e costante, di una fede non astratta ma vissuta sulla propria pelle, andando molto oltre la ragionevolezza umana. Tra Julie Lopez e George Martinez, dopo molte sofferenze, scocca le sue frecce Cupido. E la Busà registra il suono festoso delle campane del cuore in pagine ricche di estraniante fascinazione: “Tutto ora sembra presagire un lieto fine: sentono di possedere l’apertura alare delle aquile che sorvolano il cielo privo di nubi, una pacificazione interiore che rinforza gli argini e inibisce i malumori, concilia con il mondo intero, che pare ovattato, quasi insonorizzato, per loro, che hanno attraversato lo Stige a piedi, lacerandosi l’anima, e ne riportano ancora le ferite, le escoriazioni, le abrasioni”.
Ed è stupenda, successivamente, la descrizione di Julie, dopo aver superato la prova di un triste aborto: “Hanno strani riflessi quegli occhi! Contornati da pagliuzze dorate, hanno lo scintillio incomparabile di una riverberazione dal profondo. Parlano il linguaggio del cuore, la lunga discesa negli Inferi, la risalita lenta e faticosa di chi ha tanto sofferto e amato”. I due protagonisti, successivamente, avranno figli e nipoti, tanto che la trama sembra assumere l’andamento di una saga. Una saga il cui mito centrale è l’amore: l’amore sofferto e non sdolcinato, l’amore che è sempre un dolce intriso di amaro. Perché bisogna costruirlo l’amore, e non aspettarlo da altri, bisogna crederci fino in fondo, farselo crescere dentro e poi donarlo.
Scrive la Busà: “L’amore vero ci vive dentro, mai nei paraggi, né di sghembo o nelle vicinanze”; “L’amore s’impara: giorno per giorno, momento per momento, nulla è dato per scontato”. E le pagine più belle sono a mio parere quelle che nascono osservando una gestante, una donna capace di spezzarsi come il pane per donare la vita ad un altro essere. Ci sono riflessioni formidabili, come la seguente: “Mettere al mondo una creatura è… mettersi in contatto con l’eternità… L’antinomia fondamentale dell’amore risiede nella frenesia del mordi e fuggi, nel dilatare il significato esteriore a sfavore di quello interiore”. E non è, questa – non vuole esserlo – una teoria sull’amore, ma il puro e semplice maturato di conoscenze di vita di una neo-mamma, di una puerpera che parla e sussurra a se stessa: “Viviamolo l’amore! Non abbiamo molte vite, ce ne resta solo una, ed è molto breve!”. Soltanto una vita, appunto.
Franco Campegiani
P.S. mia la foto qua sopra di un dipinto di Oswaldo Guayasamìn custodito nella Capilla del Hombre, Quito, Ecuador.