Nell’augurare ai visitatori del blog Buona Pasqua, offro alla lettura una splendida lirica di un grandissimo poeta come Andrea Zanzotto (scomparso da pochi anni), tratta dalla raccolta Dietro il paesaggio (1940-1948):
Elegia pasquale
Pasqua ventosa che sali ai crocifissi
con tutto il tuo pallore disperato,
dov’è il crudo preludio del sole?
e la rosa la vaga profezia?
Dagli orti di marmo
ecco l’agnello flagellato
a brucare scarsa primavera
e illumina i mali dei morti
pasqua ventosa che i mali fa più acuti
E se è vero che oppresso mi composero
a questo tempo vuoto
per l’esaltazione del domani,
ho tanto desiderato
questa ghirlanda di vento e di sale
queste pendici che lenirono
il mio corpo ferita di cristallo;
ho consumato purissimo pane
Discrete febbri screpolano la luce
di tutte le pendici della pasqua,
svenano il vino gelido dell’odio;
è mia questa inquieta
gerusalemme di residue nevi,
il belletto s’accumula nelle
stanze nelle gabbie spalancate
dove grandi uccelli covarono
colori d’uova e di rosei regali,
e il cielo e il mondo è l’indegno sacrario
dei propri lievi silenzi.
Crocifissa ai raggi ultimi è l’ombra
le bocche non sono che sangue
i cuori non sono che neve
le mani sono immagini
inferme della sera
che miti vittime cela nel seno.
Andrea Zanzotto
P.S. nella foto qua sopra (non mia) si può ammirare lo stupendo Cristo velato di Giuseppe Sanmartino (1753), custodito a Napoli all’interno della Cappella Sansevero.
Mio caro Andrea,
ti ringrazio per la lirica di Zanzotto che hai postato e che, come altre dello stesso poeta, mette in risalto aspetti determinanti dei luoghi. Questa constatazione storica non si risolve nella semplice idiosincrasia per il presente; è piuttosto la premessa a un auspicio: che la poesia possa «costituire il “luogo” di un insediamento autenticamente “umano”, mantenendo vivo il ricordo di un “tempo” proiettato verso il “futuro semplice” […] della speranza». La riflessione di Zanzotto sulla natura è paragonabile, per costanza e intensità, a quella di Leopardi (e come quella appare ed è per certi versi antimoderna). Ma direi che il poeta novecentesco inverte i termini del confronto: se la promessa di resistenza è per entrambi basata sul valore e la dignità dell’uomo, il fine di Zanzotto è una difesa della natura, non dalla natura come per l’ultimo Leopardi. E se Leopardi ha sempre immaginato la natura come polo, di segno variabile, all’interno di un’opposizione, Zanzotto tende a una conciliazione tra gli elementi del binomio.
Ti ringrazio anche per l’immagine a me particolarmente cara del Cristo velato, una delle Opere più belle che si possano ammirare in Italia e che si sposa in modo inquietante con la tua analisi del tempo che viviamo.
Forse Cristo preferisce non vedere…
Ti stringo grata!
Mi fa piacere, cara Maria, che la tua attenzione si sia focalizzata sulla lirica di Zanzotto, non soltanto per me, ovviamente, fra i grandissimi poeti del nostro secondo Novecento. La poesia in oggetto, peraltro, appartiene diciamo così al primo tempo dell’esperienza artistica del poeta di Pieve di Soligo; antecedente, cioè, alla stagione più ardua marcata da una silloge come La Beltà (1968), di risonanza europea. Sussiste indubbiamente nella lirica da me presentata un connubio uomo/natura screziato da malinconiche venature in cui Zanzotto trasfonde, magistralmente, l’eterno tema del male di vivere, dell’homo homini lupus…e tante cose si potrebbero ancora dire, intorno a questa stupenda lirica. Un caro abbraccio