DALLA CONTEMPLAZIONE DELL’INFINITO ALLA IMMERSIONE COSMICA DELLA GINESTRA NEI CANTI DI GIACOMO LEOPARDI
Dovendo riassumere il mio lungo intervento “a braccio” del 16 agosto 2013 a Toffia (Rieti) -cittadina gemellata con Recanati- in occasione della X rassegna della mostra itinerante di poesia dal titolo POESIA IN LIBERTA’, a cura di Paolina Carli, non potrò che essere forzosamente sommario, senza per questo trascurare, spero, alcuni punti nevralgici sui quali ho insistito nel suddetto intervento (in onore di Walter Binni, l’illustre critico leopardiano di cui ricorreva nel 2013 il centenario della nascita). Ebbene, nonostante il trascorrere dei decenni che ci separano, in merito al grande Recanatese, dalla famosa “svolta” critica del 1947 proprio ad opera di Walter Binni (La nuova poetica leopardiana) e del filosofo Cesare Luporini (Leopardi progressivo) -essenziale rivalutazione, tale svolta, dell’ultimo Leopardi (quello post-recanatese, per intenderci)- inveterata risulta tuttora, direi, una visione riduttivamente “idillica” del poeta più importante della nostra modernità. Ora il lettore intellettualmente onesto non potrà negare l’esistenza di una evidente frattura nei CANTI leopardiani, fra IL SABATO DEL VILLAGGIO (XXV) e IL PENSIERO DOMINANTE (XXVI); nel senso, però, che non è pensabile, oggi, farsi ancora condizionare dalla critica di matrice crociana bollando come non poesia i versi leopardiani successivi, nei CANTI, al citato SABATO. Nei fatti Leopardi, “lo spettatore alla finestra”, aveva per sempre abbandonato Recanati, il “natio borgo selvaggio” nel 1830, accettando l’invito “degli amici di Toscana” a stabilirsi a Firenze, generosamente sovvenzionato da essi. La vita a questo punto, la calda vita, irrompe nelle tetre giornate del poeta; in quanto a Firenze Leopardi inizierà nel novembre di quello stesso 1830 il suo sodalizio con l’esule napoletano Antonio Ranieri; per tacere dell’incontro con Fanny Targioni Tozzetti, assai in vista nella Firenze letteraria del tempo e della quale il Recanatese si innamorerà perdutamente, non ricambiato. Né si dovrà dimenticare l’assidua e coeva frequentazione da parte di Leopardi della cerchia di Giampietro Vieusseux, volendo alludere alle polemiche acri sorte con gli spiritualisti e liberali fiorentini capeggiati da Gino Capponi e Niccolò Tommaseo. Ecco. Se è vero, in chiave di esegesi letteraria, che il cosiddetto metodo biografico non ci porterà mai di per se stesso a un fondato e intrinseco giudizio di valore intorno a una determinata poetica, è altrettanto plausibile che il suindicato metodo risulterà utilissimo, nella fattispecie, per sentir vibrare una ragione umana -prima ancora che stilistica- del brusco passaggio di pronuncia poetica sussistente, nei CANTI, fra i versi del SABATO (“Garzoncello scherzoso,/ cotesta età fiorita…”) e quelli del PENSIERO DOMINANTE, dal folgorante incipit (“Dolcissimo, possente/ dominator di mia profonda mente”). Un Leopardi, quello del PENSIERO, non più petrarchesco; di contro scabro, dantesco (com’è stato giustamente riconosciuto non soltanto da Binni): un poeta di fatto incamminato verso l’approdo supremo della GINESTRA. Una breve parentesi andrà aperta a questo punto sulla nuova poetica leopardiana, citando alla lettera il titolo del famoso saggio binniano del 1947 (poi confluito più largamente nella Protesta di Leopardi, 1973). In sintesi, la parola poetica del grande Recanatese, a partire dallo snodo espressivo in oggetto, eccola farsi più asciutta, essenziale; denotativa più che connotativa, direi; a conti fatti non più indefinita e vaga (secondo una lunga teorizzazione e sperimentazione di essa da parte dello stesso Leopardi) e del tutto refrattaria, pertanto, alle possibili interpretazioni di tipo spiritualistico. Se consideriamo inoltre il poderoso lavoro in prosa di Leopardi fiorito tra la composizione del celebre L’INFINITO (1819) e il definitivo congedo da Recanati del 1830 (riferendoci ovviamente allo ZIBALDONE e alle OPERETTE MORALI), finiremo per stupirci ancor meno della possente e compiuta maturazione, nell’ultimo Leopardi, del cosiddetto pensiero poetante (titolo di un fondamentale saggio del 1980 di Antonio Prete sullo ZIBALDONE); pensiero poetante già attivo e ben riconoscibile -questa la fondamentale lezione di Binni- nei versi del suddetto PENSIERO DOMINANTE e persino esplosivo, potentemente cosmico, nella scabra e materialistica GINESTRA. Così dicendo, ovviamente, nulla vogliamo togliere al valore alto del Leopardi “idillico”, che proprio nell’INFINITO raggiunge un’acme di ineffabilità; ma, appunto, una volta di più, sarà il caso di rammentare gli umani passi, oltre che poetico-ideologici, fatti da Leopardi per trovarsi al cospetto, infine, del “formidabil monte”, ossia il Vesuvio, all’altezza della GINESTRA: dove il poeta risulta sprezzatore del suo tempo, portatore di un duro ma elevato materialismo e propositivo; caldeggiante un vincolo solidaristico fra gli uomini, da opporre alla Natura “matrigna” distruttiva e indifferente alla nostra sorte. Non più la poeticissima “siepe” dell’ INFINITO, dunque, in quella vera e propria musica sinfonica che è LA GINESTRA; piuttosto il qui e ora; in chiave anti-idillica e frutto d’una immersione cosmica da parte di un poeta maturo e sommo prossimo a morire. Un poeta quasi all’atto di scagliare una parola poetica incandescente e, ripetiamo, netta: “corpo dell’idea”(Zib., pag.aut.1657); non consolante ma stimolante al massimo grado. Soprattutto lontana anni luce da quella effusività servile e cortigiana storicamente connotata come pezzo forte dei “nipotini” al ribasso di Petrarca. No, il Leopardi della GINESTRA, nell’annunciare come ha sottolineato Binni la sua “scomoda novella” (“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”) in epigrafe al canto (ricreazione negativa del vangelo giovanneo), ci ricorda nella prima strofe di esso i “giardini e palagi,/ agli ozi de’potenti/ gradito ospizio”, ora ridotti in “ceneri infeconde” dal “formidabil monte/sterminator Vesevo”. E non sarà superfluo, in ultimo, ricordare -come faceva spesso Walter Binni- il passo dello ZIBALDONE ( agosto del 1823) laddove il grande Recanatese osserva che la poesia “ci dee sommamente muovere ed agitare e non già lasciar l’animo nostro in riposo e in calma”. Osservazione, vediamo bene, espressa dal cantore dei “sovrumani silenzi”: quasi un monito per noi a non sentire riduttivamente la grande poesia leopardiana al netto di un pensiero acuto da subito e negli ultimi anni totalmente in atto, dal punto di vista artistico, sino al culmine della GINESTRA.
P. S. il testo in oggetto è stato da me inoltrato in data odierna a Paolina Carli, per la prossima pubblicazione nella antologia POESIA in LIBERTA’ (X edizione).
Andrea Mariotti