Molto è stato detto dalla critica e dai lettori sul romanzo La sposa vermiglia di Tea Ranno (Mondadori, prima ed. febbraio 2012). La scrittrice è stato peraltro da me già recensita nel presente blog in data 1.3.2013 in merito al suo Cenere (2006; romanzo vincitore del premio Chianti). Ebbene, a lettura ultimata de La sposa vermiglia, dico innanzitutto di essermi imbattuto in una narrazione all’interno della quale è ben attiva, con esiti felici, una raffinata dialettica tra l’onniscienza di chi racconta e il dipanarsi degli eventi. La storia è questa. Nella Sicilia del 1926, Vincenzina Sparviero, di famiglia aristocratica, dopo la morte della sorella Concetta, in seguito a un voto, accetta un matrimonio d’interesse con il ricchissimo Ottavio Licata mafioso e fascista, responsabile di traffici illeciti di cocaina con base oltre Oceano. Ora accade che la “palombella” Vincenzina si innamori di Filippo Gonzales, uomo di fiducia del Principe proprietario delle terre attorno al paese dove la ragazza vive, e cioè Melilli, in provincia di Siracusa. Vincenzina, sofferente per severi disturbi di carattere psicosomatico, si rende conto di essere degna dell’amore di un bel giovane dall’avvenire sicuro quale Filippo. E tuttavia, soltanto il giorno delle sue nozze con Licata, davanti all’altare, dopo aver già detto il fatale sì, la nostra eroina avrà l’ardire di esprimere apertamente in pubblico l’amore per il giovane, dinanzi agli occhi del vecchio, rozzo e sadico Ottavio Licata. Il quale, inferocito, vorrà esercitare subito il suo diritto sulla giovane sposa a possederla ancor prima del pranzo nuziale. Vincenzina, a questo punto, si opporrà con tutto il suo coraggio, sfidando sprezzantemente il vecchio, che le sparerà, ferendola mortalmente. Finirà in manicomio Licata, il “Pazzo”; laddove Filippo, nelle battute conclusive del romanzo, si avvicina al fuoco che in quello stesso tragico giorno sta divorando i possedimenti del suo Principe: fuoco percepito dal giovane come ”porta di paradiso spalancata verso la terra dove c’è una magnifica Sparviero che lo sta aspettando”…e qui non bisogna mancare di sottolineare -come del resto ha puntualmente fatto Giuseppe Panella- questo magnifico epilogo, frutto d’una sapiente “arte di scorcio” (nel senso limpidamente indicato da Gianni Celati, insigne traduttore de La Chartreuse De Parme e proprio a proposito delle battute conclusive del capolavoro stendhaliano; quasi un colpo d’ala del grande scrittore francese che, sollevandosi al di sopra delle vicende narrate fin lì, trascina con sé il lettore, fino a quel punto avviluppato dalla febbrile trama romanzesca). Non a caso mi sono riferito a Stendhal in quanto, nel romanzo della Ranno in oggetto, prima del giorno fatale del matrimonio, il lettore vede quell’amore “di lontano” -per usare uno stilema leopardiano estrapolato dai versi finali di A Silvia– crescere profondamente fra la giovane Sparviero rinchiusa in alto nella sua casa-torre (a cucire e ricamare il suo corredo) e Filippo Gonzales, in febbrile e giornaliera conversazione con il vecchio Don Alfonso, affezionato ai due giovani e la cui farmacia, in basso, è in corrispondenza perfetta con la stanza di Vincenzina. Ebbene come non ricordare, al riguardo, il consolidarsi dell’amore tra Fabrizio Del Dongo e Clelia Conti nella citata Chartreuse proprio in concomitanza della prigionia di Fabrizio nella Torre Farnese dove, dall’alto, il suo sguardo può posarsi sul volto di Clelia, figlia del governatore della Torre stessa? Fabrizio, insomma, scopre in quel momento d’essere veramente capace d’amare; nella sua fisica immobilità di prigioniero eppure nella sua libertà d’amoroso sguardo. Amando da parte mia profondamente il romanzo di Stendhal e in particolar modo tale poeticissima diagonale di sguardi appena rievocata (Fabrizio del Dongo in alto, prigioniero, e Clelia Conti in basso), ecco che non posso nascondere di essere rimasto molto colpito da questa stessa spazialità amorosa fra Vincenzina e Filippo, per tornare al romanzo della Ranno; ché, inevitabilmente, “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” (Inferno, V, 103) trova qui una sua toccante, delicatissima espressione. Il visitatore del presente blog potrà eventualmente farsi un’idea della forza narrativa di una scrittrice di razza come Tea Ranno -ancor prima della lettura de La sposa vermiglia– attraverso una “panoramica” di recensioni e valutazioni relative al romanzo tutte estremamente positive, a ribadire l’accoglienza lusinghiera della critica e dei lettori del resto già riservata al citato e splendido romanzo Cenere, seguito da In una lingua che non so più dire (2007). Ora, al di qua dei dettagli analitici del récit nell’arte romanzesca della Ranno, vorrei dire brevemente di un’emozione da me provata leggendo La sposa vermiglia. L’emozione cui sto alludendo è quella di essermi trovato in presenza di un romanzo d’altri tempi, nel senso più nobile del termine; dal respiro potente e accurato nel restituire il passato grazie a una sapienza descrittiva non fine a se stessa, ma sempre funzionale nel far rivivere al lettore quel tempo; nei suoi colori, odori e orrori crescenti di un regime in piena ascesa (1926); assieme alle vampe estive di un paesaggio assolato e “crudele” (rammentando un aggettivo preciso del Principe di Salina in merito alla Sicilia, nel capolavoro di Tomasi di Lampedusa). Sì, Tea Ranno sa quello che dice, in senso romanzesco; talché mi piace citare un passo dell’Ars poetica di Orazio: “Cui lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc, nec lucidus ordo” (40-41;…”ma se il soggetto è tutto potentemente vostro, non mancheranno la parola felice e la luminosa armonia”). Per dire, insomma, dello spessore di un romanzo, quello della Ranno in questione, in grado di riconciliarci con la Letteratura, oppressi oggigiorno come siamo dagli strozzati capitoletti di troppa narrativa all’indicativo presente malinconicamente piatto e maldestro. La foto qua sopra, mia, scattata all’interno del Museo Nazionale Romano, ci consente di ammirare la cosiddetta fanciulla di Anzio, originale greco-ellenistico proveniente dalle ville neroniane; nel momento in cui la bellezza impareggiabile di tale volto di fanciulla vuole essere un omaggio alla fragile “palombella” che si fece “Sparviera”, ossia Vincenzina, nobile e toccante creatura romanzesca de La sposa vermiglia.
Grazie, Andrea. E’ una recensione accurata e molto molto bella.
Una recensione dovuta, cara Tea, dopo la lettura con il fiato sospeso di Cenere avvenuta l’anno scorso. Un romanzo come La sposa vermiglia, infatti, pur e giustamente molto diverso, si è rivelato ai miei occhi altrettanto appassionante, e felicemente risolto da un punto di vista squisitamente letterario.