SU CAPTALOONA, ROMANZO DI CLAUDIO FIORENTINI
Riguardo all’ultimo romanzo di Claudio Fiorentini dal titolo Captaloona, Napoli, Kairòs Edizioni, 2013, inizierei senz’altro col citare un illuminante passo dello scritto che la poetessa e saggista Ninnj Di Stefano Busà ha voluto dedicare al narratore che è pure -occorre rammentarlo- poeta e pittore (in CLAUDIO FIORENTINI E LA SUA TRIADE ARTISTICA; leggibile, sulla Rete, all’indirizzo nazariopardini.blogspot.com/, in data 9/7/13): “In narrativa è spigliato, divertente, ironico, si esprime a tratti alla maniera gaddiana. La sua scrittura molto stringata e parsimoniosa di aggettivazioni, di orpelli, mira al discorso concreto, senza arrangiamenti o infingimenti. Il realismo convive nelle sue opere e vi trasferisce le linee essenziali di una verità dolorosa, ma sorretta da una saggia visuale dell’esistente che si manifesta in ogni circostanza. Lo attraggono le grandi tematiche: l’amore, la morte, la religione, la filosofia affiancate da una visionarietà che scheggia talvolta il vissuto, fomentandolo e di riflesso cercandolo e tentandolo metaforicamente. L’allegoria è anche una delle sue attitudini. La sua pagina narrativa sembra ambientata in un tempo dialogico ma anche diacronico, e si snoda lungo il corso di una ambientazione che riecheggia di molti temi”. La copertina di Maria Rosaria Vado per il romanzo di Fiorentini, sembra in effetti supportare visivamente le suddette osservazioni della Busà; nel senso che in essa si vede eloquentemente contrapposta la tetraggine della città commerciale alla luminosità di quella ideale, a misura d’uomo; in cui svetta, nel cielo senza nuvole, un grattacielo della Musica. Scorrendo poi l’indice del libro, risulta più che evidente la scansione musicale –in movimenti, per l’appunto- che l’autore ha inteso dare ai blocchi della sua narrazione, da leggere -pare suggerirci Fiorentini- tutt’altro che staticamente.
Conversando con l’autore dopo la lettura del romanzo, ho avuto peraltro occasione di ripensare a un grande libro di Italo Calvino del 1972, Le città invisibili; con specifico riferimento a quella coscienza del multiforme -a fronte della complessità del reale- vibrante nelle pagine calviniane, come del resto nel romanzo di Fiorentini in oggetto (rimando immagino lusinghiero per il nostro autore che, evidentemente, ha saputo integrare al meglio negli anni l’innato talento con i succhi vitali del suo andare per il mondo). Restiamo però concentrati un attimo su Calvino: non si potrà certo dimenticare l’intima natura loico-raziocinante del grande scrittore del nostro Novecento; laddove Fiorentini non ci appare altrettanto distributivo, nelle sue pagine; pagine dei tempi attuali, ovviamente, che si fanno carico di una “globalizzazione d’identità, la sua”; cioè di Fiorentini, come osserva la Busà in conclusione del citato intervento. Ma Claudio Fiorentini, a lettura ultimata di Captaloona, rimane comunque intimamente dalla parte di Calvino, a nostro giudizio; alludendo a quella “gravità senza peso” che il grande scrittore riconosce nello stile di autori quali Ovidio, Cavalcanti, Boccaccio, Leopardi, Kundera (per limitarci a pochi ma significativi nomi) nella prima delle sue memorabili Lezioni Americane: Leggerezza; talché, tornando a Claudio Fiorentini, qualsivoglia lettore non potrà negargli per l’appunto detta leggerezza, in chiave espressiva. Leggerezza che gli permette di dispiegare la suindicata coscienza del multiforme (e si pensi, al riguardo, al precedente e felice “giallo metafisico” di Fiorentini, e cioè Il misterioso caso di via Delia da Gilal Gulta, del 2011). Così dicendo, sarà forse possibile osservare più adeguatamente la scrittura efficace e coinvolgente sulla quale Captaloona può contare: aspetto evidente della bravura del romanziere; ma, ben più in profondità, strumento aderente allo spessore umanistico (da scriptor rerum) di un sognatore, Fiorentini, che sarebbe bene prendere sul serio.
“Captaloona non è una città, ma un concetto, eppure non dubito che molte città abbiano caratteristiche simili, o peggiori di quelle qui descritte. Se il mondo, come sembra, va nella direzione di Captaloona, sono guai seri, e vanno risolti sul nascere. Non aspettate che un architetto malato vi coinvolga, non aspettate che un fantasma vi guidi perché quelli, ahimè, non esistono”. Così si legge nella severa epigrafe non a caso anaforata (“non aspettate…non aspettate”) posta all’inizio del romanzo (con lontana e suggestiva eco del viaggio per eccellenza (“Per me si va…”; Inferno, canto terzo, 1-3). A pronunciare questa epigrafe è Ventresca, amico del celebre architetto Marc Mullet e deciso a raccontare la storia dei fitti eventi accaduti a Captaloona partendo appunto dalla fine, e cioè dall’assassinio di Mullet; conditio sine qua non, in sintesi, della rinascita della città. Il lettore di Captaloona non tarderà a prendere coscienza della superiorità indiscussa di Mullet rispetto agli altri attori della vicenda; una superiorità che trascende, a conti fatti, gli eventi stessi narrati nel romanzo. Sicché sarebbe errato ravvisare in Mullet un vitale alter ego del romanziere; in quanto la figura dell’architetto suscita totalmente l’ammirazione dell’autore, poco interessato ad attribuirle profondità di personaggio; così, al dunque, di valenza demiurgica dovremo parlare a proposito di tale figura: in una parola sola, funzione narrativa, apodittica rispetto al flusso romanzesco e finalizzata a farsi sovente portavoce dell’umanistico risentimento di Fiorentini, come ben dimostra l’attacco del secondo movimento del libro, dal titolo L’arrivo (a Captaloona, naturalmente): “Tutto cominciò con l’arrivo alla stazione, un luogo veramente ignobile, ben diverso da quello descritto dall’architetto”. Così la città appare, ivi giunti in treno, a Galatea Malaspina, Cornelio Pesto e al celebre architetto, che non mancherà di osservare poco più avanti come oggi ci sfugga “il senso della convivenza tra cemento e libertà”. E proprio Galatea Malaspina e Cornelio Pesto sono di gran lunga i personaggi, anzi, le vitali creature che maggiormente mi hanno convinto, del romanzo; anche perché in Galatea e Cornelio si incarna nel modo più efficace a mio modo di vedere e come preciseremo la carica utopica diffusa nel libro. Galatea (si noti il mitologico nome che rimanda alla “bianca”, una delle Nereidi amata invano dal ciclope Polifemo); Galatea Malaspina, stavamo dicendo, entra subito in scena nella narrazione: “per riscattarsi da una vita magra e grama” (e si osservi, qui, la doppia aggettivazione frutto d’anagramma felicemente congegnato da Fiorentini; uno scrittore dotato di una vis ludico-linguistica capillarmente attiva all’interno delle vicende da lui narrate). Ma come entra in scena Galatea in Captaloona? Presentandosi nello studio del celebre architetto per un posto di assistente nel suo staff. La giovane donna, “protagonista vocale di un misero call center”, pur titubante di fronte al “maestro”, finisce per assecondarne le catalizzanti pressioni a seguirlo a Captaloona, per scoprire le carte di loschi gruppi di potere localmente operanti (e suggestiva è la pagina che quasi ci fa sentire la voce stupenda di Galatea impegnata a cantare ‘Na sera ‘e maggio, con l’architetto ad ascoltarla “estasiato”). In effetti, la pagina accennata risulta ai nostri occhi importante in quanto, sempre in essa, irrompe nella storia il giovane fattorino Cornelio Pesto, romanzesca creatura uscita viva dalla penna del narratore. “Timido e impresentabile”, perdutamente innamorato di Galatea, il giovane Pesto, inzuppato d’acqua, ha la sfortuna di fare il suo ingresso nello studio dell’architetto nel bel mezzo dell’esibizione canora della donna, peraltro in accappatoio a causa dei suoi vestiti fradici di pioggia; donde “la sagra del malinteso”, che però ferisce l’animo di Cornelio, fino ad indurlo a scappar via umiliato; non senza moti di malignità e maleducazione rivolti a Galatea e Mullet. Cornelio Pesto, con le limpide parole del romanzo “era un ragazzone ingenuo, facile preda dei trabocchetti che tende ogni giorno il mondo contemporaneo, e delle seduzioni insite nelle mille angherie diffuse dei mezzi di comunicazione. Per un lungo periodo della sua giovinezza non aveva fatto grande uso delle sue qualità, divenendo il ritratto di una società malata, un giovane solitario e scontroso che aveva paura di parlare con la gente e si chiudeva a riccio…Tuttavia aveva una vita sociale, sebbene discutibile: era, forse suo malgrado, un esperto di numeri verdi, di quei numeri cui fanno capo fantomatici call center…”. Non a caso abbiamo riportato quasi per intero l’iniziale caratterizzazione del personaggio; trattandosi a nostro avviso di uno dei punti più felici del libro, laddove bastano a Fiorentini pochi tocchi per rappresentare fluidamente, con “gravità senza peso”, ossia con la suddetta leggerezza, quell’insidioso autismo neppure così nascosto in tanti giovani d’oggi e che in Cornelio Pesto costituisce un humus destinato tuttavia a fare i conti con l’esperienza vitale del multiforme, in una città come Captaloona. Facciamo un passo avanti, focalizzando la nostra attenzione sul capitolo Ali del Sud, incluso nel terzo movimento del romanzo (dal sottotitolo Dove si dipana l’intreccio). L’aria si è fatta pesante a Captaloona, dopo l’incontro di Mullet e Galatea Malaspina nel palazzo del Comune con l’inquietante burocrate dal nome Penuria; e, soprattutto, dopo il rapimento dell’architetto da parte di “brutti ceffi” per un faccia a faccia con il “temibile” Collirio, l’anima dannata della città. Netta, a questo punto, la nostra sensazione di trovarci al cospetto del capitolo più bello e decisivo del libro. Vediamo il perché. Cornelio Pesto incontra Galatea, ossia la donna dei suoi sogni, “in quell’ignobile distesa di catrame e lastroni di cemento”; che così si è rivelata nel frattempo ai due la città di Captaloona. Lui, Cornelio, artista del pedinamento, con lo sguardo per terra, si trova adesso irrevocabilmente di fronte alla schiettezza di modi e parole della donna (non più rassicurata dalla stabile e povera monotonia del call center dove lavorava). E Galatea, allora “saggia, manifestò una debolezza per dare all’uomo la possibilità di rendersi utile”, leggiamo nel romanzo. L’uomo non può più rimandare una lotta quasi epica contro i tortuosi percorsi della sua ripiegata fantasia; in quanto Galatea Malaspina gli è ora di fronte in carne e ossa; ed eccolo quindi confessarle la sua dipendenza dai “numeri verdi”; per prendere atto che l’immagine della donna da lui costruita durante le lunghe telefonate del passato non coincide con quella reale di Galatea ora davanti ai suoi occhi. “Vagheggia/ il piagato mortal quindi la figlia/ della sua mente, l’amorosa idea,/ che gran parte d’Olimpo in se racchiude”, ci dice Giacomo Leopardi in Aspasia (versi 37-40), canto napoletano del 1834 e relativo al suo infelice innamoramento per Fanny Targioni Tozzetti (vissuto dal grande Recanatese nel suo precedente soggiorno fiorentino). Ma, tornando a Galatea e Cornelio, come non prendere atto della umanità rispettosa della donna che suggerisce “sottovoce” all’uomo, senza dileggio alcuno, di “vedere un professionista”; non scartando l’ipotesi che “quelle storie”, ossia le vite degli altri immaginate da Cornelio potrebbero avere una dignità editoriale? C’è in effetti poesia, in queste pagine di Claudio Fiorentini, la poesia della vita che avvicina gli umani “confusi e legati a migliaia di mondi diversi”, per dirla con le parole di una famosa canzone di Francesco Guccini risalente ai primi anni Ottanta, ossia Bologna; sì, perché il nostro Cornelio Pesto, eroe negativo per eccellenza, avverte che “era una delle rarissime volte che a lui capitava di parlare con qualcuno che fosse fisicamente presente, e scoprì che gli piaceva farlo”. Ad un certo punto l’uomo afferma: “Comunque non quadra”: quanto basta per provocare la reazione esasperata della donna; la quale, avendolo sentito pure parlare di specchi (non essendo a sua volta immune da manie) e trovandosi soprattutto di fronte alla lentezza imperdonabile del suo interlocutore nell’accantonare sogni e immaginazioni, eccola esclamare con foga; “Ma qui non quadra niente, niente, capisci?”. “Se qualcuno l’avesse vista in quel momento, l’avrebbe amata e temuta. Una donna che si espone è l’enigma più meraviglioso che a noi uomini può capitare in sorte di risolvere”; osserva il narratore con lucida partecipazione. Ma Cornelio, inventandosi una pacatezza a lui sconosciuta, mette a parte Galatea dei suoi dubbi più che fondati circa la sorte dell’architetto, sicuramente rapito in quanto temuto dai potenti della città. Galatea rimane “quasi affascinata” dall’eloquio disordinato ma non insensato dell’uomo “trasformato in giallista di successo”; e qui bisognerebbe dire della tenerezza di Fiorentini nell’osservare con sagace discrezione le sue romanzesche creature all’atto di convergere al centro di quel quid (di alto potere nutritivo per le sorti del romanzo) che così potremmo qualificare: la ragione solidale, scaturita dalla crescente complicità discorsiva di Galatea Malaspina con Cornelio Pesto, nelle pagine oggetto della nostra riflessione. Ragione solidale e dialogica sostrato delle grandi narrazioni d’ogni tempo; ciò che assicura credibilità, nella fattispecie, alla carica utopica (cui abbiamo già fatto cenno) vibrante nel romanzo Captaloona. “ E andar via no? Lui non rispose, lei ci pensò su, poi capì che fuggire sarebbe stato un atto di vigliaccheria, una rinuncia prematura, proprio quando la vita stava per prendere strade impensabili. Ah, la mania di essere protagonisti, il sapore dell’avventura che ora stavano pregustando, quello ha un valore inestimabile, meglio rimanere. Sì, d’accordo, una donna indifesa e un maniaco complessato non sono certo la combinazione migliore per un romanzo epico, ma, nonostante le loro limitate forze, almeno potevano provarci. E poi se l’architetto era in pericolo, avrebbero potuto tentare di tirarlo fuori dai guai. Sì, sarebbero rimasti. Non lo disse”. Ancora un indugio, più tattico che strategico da parte di Galatea, ed ecco finalmente Cornelio “vinto dal coraggio”, chiedere alla donna: “Vuoi tornare al tuo lavoro…immergendoti…nelle solite abitudini…oppure vuoi divertirti a combinare qualche pasticcio a Captaloona insieme a me?”. I due, ormai affratellati dall’afflato che Erich Fromm chiama filìa nel suo celebre saggio L’arte di amare (laddove la intende quale premessa di un eros durevole, vale a dire l’amore costruttivo) i due, dicevamo, rimangono pertanto nella città abitata da santi eremiti e loschi trafficanti; cercando per prima cosa di calmare lo stomaco brontolante con il menù “Ali del sud”; così come leggiamo in conclusione del capitolo del libro. Un capitolo al cui interno -lo affermiamo convinti- noi cogliamo l’umanistico spessore del sognatore Claudio Fiorentini ; al quale la leggerezza dello stile “serve” per concretare la sua aspirazione a quella città ideale -la vediamo nella copertina del libro- fatta di luce, di azzurro, e di musica; e contrapposta all’altra resa oscura dalle polveri sottili del malaffare consacrato al vizio e al denaro. Sicché, in sintesi, alla lettura del capitolo in oggetto, ben al di là dell’intreccio che si dipana, noi avvertiamo una scossa narrativa dovuta all’intelligenza del cuore di Claudio Fiorentini; tale da elettrizzare i suoi personaggi -Galatea Malaspina e Cornelio Pesto in primis– e di conseguenza noi lettori, intimamente rallegrati dalla percezione di quel bene in apparenza oggi disperso eppure radicato in profondità: il senso dell’umana solidarietà. Bene prezioso da risultare -così efficacemente evocato dal narratore- il fondamento, nel libro, di quella carica utopica fatta di creatività, buon senso, allegria di mente; allo scopo di voltare le spalle a Pluto, il dìo della ricchezza e dei centri commerciali che ottundono l’immaginazione “primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli”; come osserva Leopardi nello Zibaldone in un passo del luglio 1820 (pagina autografa 168). Tornando al romanzo di Fiorentini è giusto, a questo punto, parlare di messaggio segnatamente positivo di cui esso si fa carico; in vista degli umani non più disintegrati sine die nell’intimo e nelle relazioni sociali (a fronte di quei “guai seri” cui fa cenno la già ricordata epigrafe del libro).
Naturalmente si compie qui un’ingiustizia nei confronti di un romanzo come Captaloona, nel tacere della sua diacronica complessità abilmente padroneggiata dall’autore al quale dovremo addebitare -a voler cercare il pelo nell’uovo- solo una certa lentezza, all’inizio, all’atto di far partire la macchina romanzesca (in termini di tecnica narrativa, come una sorta di prevalenza del processo di produzione rispetto al prodotto finito). Cosi dicendo, tuttavia, alludiamo davvero a trascurabili lacerti non integrati nella carne viva di una narrazione al cui interno la bravura di Fiorentini finisce poi per nascondersi del tutto, per far parlare direttamente i suoi personaggi, “cattivi” e “buoni” (molti dei quali da noi deplorevolmente non citati); personaggi a conti fatti vitalisticamente trasfigurati dal divenire; ossia da una vera e propria poetica della trasformazione alla base del romanzo. Come non essere grati, in conclusione, a Claudio Fiorentini di fronte a un libro come il suo Captaloona? in tempi cupi come gli attuali, questo romanzo ci offre un sorriso ricco di saggezza e di amore per la vita.
Andrea Mariotti, ottobre 2013
Claudio Fiorentini, Captaloona, Napoli, Kairòs Edizioni, 2013.