Ho conosciuto di persona la scrittrice Tea Ranno lo scorso anno, presso la Biblioteca Pier Paolo Pasolini di Roma, in occasione di uno degli incontri del “Circolo dei lettori” da lei condotti. Soltanto nel mese appena trascorso, però, ho letto il suo romanzo Cenere (Edizioni e/o, 2006; premio Mangialibri nel 2007 e premio Chianti nel 2008). Tea Ranno, nata a Melilli, in provincia di Siracusa, attualmente vive a Roma. Laureata in giurisprudenza, ha sempre coltivato la pratica della scrittura. Così dicendo, tuttavia, si rischia di minimizzare la percezione (non solo mia, ovviamente) di quella che, nel caso di Tea, senza mezzi termini, mi sento di definire una vocazione letteraria autentica. Non altrimenti mi potrei spiegare, infatti, l’indubbia bellezza del libro in oggetto (accolto molto positivamente dalla critica e dai lettori, com’è possibile verificare sulla Rete). Cenere (acquistabile anche on line) è un romanzo che ci riporta a uno scenario seicentesco, in una provincia italiana del Meridione dominata dal pugno di ferro dell’Inquisizione. Protagonista della vicenda è l’altera contessa Stèfana, capace di mandare sul rogo come strega una giovane e bellissima serva, Caterina; per poi andare incontro lei, Stèfana, allo stesso terribile martirio nel momento in cui lo “zoccolo duro” del potere clericale-patrizio, venendosi a saldare con la furia superstiziosa del popolo, le volgerà le spalle. A questo punto occorre innanzitutto evidenziare la forza d’attualità del romanzo della Ranno, dando la parola a Pier Luigi Lando (intervento critico del 10.4.2006 leggibile sulla Rete): “…questa storia magistralmente elaborata dalla Ranno, solleva un dubbio molto inquietante: abbiamo consistenti motivi per ritenere che i fantasmi, le cattiverie che agitarono i nostri simili al tempo della caccia alle streghe, abbiano definitivamente abbandonato i meandri della psiche delle successive generazioni e che noi oggi ne siamo immuni? E dove sarebbe andato a finire tutto quell’insieme di contenuti psicoemotivi che sembrava avesse bisogno di crearsi alibi magici, sino a credere nelle cose più assurde, a mettere insieme fatti e fantasie in modo da dare loro significati funzionali allo scopo di vedere in chiunque lo strumento di un’opera demoniaca?”. Ecco, a parer mio meglio non si sarebbero potute esprimere le ragioni in base alle quali il lettore viene perentoriamente “catturato” dal romanzo in oggetto; giacché proprio le suddette ragioni, imponendo una riflessione sul presente, qualificano nel contempo la narrazione come cosa viva, senza che questa stessa narrazione rimanga relegata nell’ambito dell’ affresco, pur elegante, di un tempo feroce ma astratto. Il romanzo della Ranno risulta in effetti ricco di personaggi come ottenuti a sbalzo, talvolta “incandescenti”; grazie all’evidente lavoro linguistico condotto dalla scrittrice; capace di rielaborare, vivificandoli, gerghi dialettali sepolti nel passato frammisti alle parole “colte” della classe dominante (la contessa, il cardinale, il giudice Corselli e altri). In sostanza, di uno studio preparatorio piuttosto meticoloso da parte di Tea Ranno prima del suo “parto letterario” dobbiamo parlare; sicché la narrazione dispensa al lettore anche il godimento estetico di suoni e odori che sono poi l’incanto della vera letteratura. Ma, a mio avviso, nel romanzo, è ravvisabile soprattutto un plus-valore solo in apparenza scontato ma in realtà decisivo: alludo alla presenza costante e sinuosa di un superbo presente storico, attivo lungo tutto il corso della vicenda narrata. E lo chiamo superbo, il presente storico su cui fa leva Tea Ranno proprio in quanto, grazie a esso, il farsi delle cose davanti agli occhi del lettore non risulta mai piatto, unidimensionale; essendo di contro prospettico, vitalisticamente profondo, inclusivo dei “vizi privati e pubbliche virtù” dei personaggi della vicenda (esemplare, al riguardo, la torbida passione del temuto giudice Corselli nei confronti della giovanissima nipote Bernarda; in contrappunto al suo pubblico potere di inquirente implacabile e rigoroso). Tale presente storico cesellato dalla Ranno si prende carico, in effetti, di dare voce costante al vero protagonista (neppure tanto recondito, nella sua spietatezza) del romanzo: il potere. Potere che si incarna, di volta in volta, nella contessa Stèfana, nel suddetto giudice Corselli, nella merciaia Sàntola e negli altri personaggi della vicenda: in tutti levando alte le sue indomabili fiamme prima di quel rogo cui Stèfana si avvicinerà spoglia della sua altezzosità, umanamente fragile ma forte in acquisita consapevolezza.
P.S. La foto qua sopra, mia, è stata scattata di recente nella cripta della chiesa romana dei Santi Luca e Martina ( si tratta, con epigrafe, del busto di Pietro da Cortona dovuto a Bernardino Fioriti).