Dedicato a me stesso e a tutti coloro che si sforzano di versare la propria piccola goccia di buon senso nel mare agitato che stiamo attraversando:
Ci si apre la via con la forza.
Orbene, tale via te la darà la filosofia. Rivolgiti a questa, se vuoi essere salvo, senza affanni, felice, insomma, se vuoi essere libero, ed è questo il massimo bene. Conseguire tutto ciò in altro modo non è possibile. Bassa condizione è la stoltezza, abbietta, ignobile, servile, esposta a molte passioni e, per giunta, alle più tremende. Da questi opprimenti padroni, che comandano ora alternativamente, ora tutti quanti insieme, ti libera la saggezza. A questa conduce una sola via e, per la verità, la più diretta: non tralignerai. Procedi con passo sicuro; se vuoi che ogni cosa ti sia soggetta, sottomettiti alla ragione. Governerai molti, se ti governerà la ragione: proprio da questa imparerai ciò che devi intraprendere e in quale modo; così non ti imbatterai in situazioni impreviste. Non puoi indicarmi alcuno che sappia come ha cominciato a volere ciò che vuole: egli non vi fu portato da una riflessione, ma spinto da un impulso irrefrenabile. La Fortuna ci attacca non meno spesso di quanto noi la attacchiamo. E’ vergognoso non muoversi con le proprie gambe, ma essere trascinati e in mezzo al turbine degli eventi chiedere d’un tratto con stupore: “Come mai sono capitato qui?”. Stammi bene.
Seneca, Lettere morali a Lucilio, Liber quartus, 37.
P.S. La foto qua sopra, mia, è stata scattata di recente passeggiando lungo l’Appia Antica, “regina viarum “.
Questa è la saggezza di chi con attenzione ha frugato la vita, con il pensiero profondo e con la semplicità del cuore. Sentirlo, coltivarlo, applicarlo, non può che portare bene.
Ti ho detto, vero, che quando m’accingo a leggere Seneca, non posso fare a meno di commuovermi chinando la testa? Mirka
Sì, mi ricordo di queste tue parole. Questa mattina un mio amico lo ha riletto, nel blog, questo passo famoso di Seneca e anche lui si è commosso, ricordando il tempo dei suoi studi giovanili. Un abbraccio
L’ho letto anch’io Seneca, molto tempo fa, e mi è sempre piaciuto perchè trovo accessibile, moderno e anche molto italiano il suo pensiero. Come tu ben saprai, a suo tempo, fu consigliere di Nerone, durante quello che gli storici hanno definito Quinquennium Neronis, cinque anni di buon governo vicino a una delle teste coronate più ‘imprevedibili'(ad essere clementi)che la storia ricordi.
Chissà, se uno come lui riuscirebbe a fare lo stesso, per il bene dell’Italia, a fianco di uno dei governanti di oggi?
Un abbraccio, Roberto
Mi fa piacere ricevere questo tuo commento, caro Roberto, in quanto, a parte la bellezza del passo di Seneca in oggetto, vale la pena di sottolineare, qui, che durante gli anni del regno di Nerone l’Impero conobbe pace, prosperità e intraprendenza economica. Certo, Nerone fu un megalomane, uno psicolabile oppresso da una madre tirannica e ambiziosa quale Agrippina; tuttavia va ribadito che il mondo cristiano, fortemente avverso a Nerone, trovò in Svetonio e soprattutto in Tacito le cosiddette “pezze d’appoggio” per una fortissima campagna di denigrazione dell’imperatore, considerato il primo feroce persecutore dei cristiani. Questo è quanto si apprende, in sintesi estrema, da un fortunato e documentato libro di Massimo Fini, Nerone (duemila anni di calunnie), del 1993: libro dal quale emerge, peraltro, un ritratto tutt’altro che edificante di Seneca; opportunista, ambizioso e intrigante al massimo grado: incline, insomma, a predicar bene e razzolare male…tant’è. Rimane, a mio avviso, e credo concorderai appieno, la suggestione del passo citato nel mio articolo, a sostegno della libertà morale dell’uomo. Un abbraccio
E’ vero, rimane la suggestione di quel passo, però io sono un testardo e in certe cose non transigo: non riesco a capire, perdonami Andrea, come possano. dalla testa di un uomo, uscire tali pensieri così ricchi di sensatezza e di onestà se poi l’uomo in questione si comporta in senso opposto. Io credo ci sia sempre una certa coerenza, sia nel bene che nel male. Non so quali siano le fonti cui ha fatto riferimento il libro di Fini, ho sentito anch’io questa storia, ma credo che tutto possa essere messo in discussione, compreso il citato libro… Forse il pensiero scritto di un uomo e l’animo da cui è uscito dovrebbero essere presi in considerazione diversa, rispetto a ciò che si legge. Questo è il mio pensiero.
Carissimo Andrea, impervio sentiero (e dolcissimo) quello di Seneca, teso ad indicare a se stesso, e di riflesso a quanti circondano, la via di uno straordinario percorso etico, di un affinamento morale che sarebbe estremamente salutare proporre nella vita pubblica e privata dei nostri tempi. Una filosofia dell’autocontrollo come mezzo per raggiungere l’integrità morale, ad un tempo personale e civica. Una sorta di ascesi immanente, di evoluzione spirituale del singolo, i cui riflessi proiettare nella vita associata, contagiando con il diretto esempio. Non c’è bisogno di precetti, di direttive, di insegnamenti (i cui docenti, come sappiamo, finiscono quasi sempre per predicar bene e male razzolare). Ognuno ha dentro di sé il proprio faro ed ognuno può essere il maestro di se stesso. E tuttavia, a mio parere, va fatta chiarezza sul significato di questa luce interna, che Seneca definisce “Ragione”. E’ un termine che presta il fianco ad equivoci incredibili, dei quali forse non ci rendiamo ben conto e dei quali già i pensatori classici non si rendevano conto, essendo stato da tempo oscurato l’orizzonte misterico della speculazione aurorale in cui il termine ed il concetto di “Logos” erano apparsi per la prima volta. Nella meditazione presocratica, che superficialmente i pensatori successivi liquidarono con il termine di “filosofia fisica”, “Logos” (da “légein” = “tenere unito”) indicava il nucleo, il centro della sapienza e della conversazione universale. Per Anassìmandro, il “Logos” era l’”Apeiron”, “l’infinito che comprende in sé tutte le cose e a tutte le cose è guida”. Per Eraclìto era “l’armonia dei contrari”, la legge sovrana del mondo, la riunione del molteplice, l’intesa segreta dei diversi tra di loro, cui l’uomo poteva aspirare in quanto partecipe dell’intelligenza cosmica. A partire dai Post-socratici s’impose nella speculazione filosofica una visione sempre più antropocentrica e panteistica che gradatamente venne trascinando il divino nell’umano e nel mondo, fino all’identificazione di esso con la ragione dell’uomo stesso. Su questo travisamento madornale fu fondato l’intero processo della filosofia occidentale. E Socrate, che in realtà appartiene molto più al pensiero presocratico che a quello successivo, venne frainteso come lo “scopritore del concetto”, anziché del “daimon”, cancellando le valenze fortemente introspettive e dialogiche della sua filosofia per farle antesignane del pensiero razionale e dialettico. Quando poi, in età alessandrina, venne delineandosi la figura stereotipa del Saggio, con l’apporto degli Epicurei, degli Scettici, degli Stoici in particolare (cui Seneca va indubbiamente collegato), il “Logos” aveva totalmente smarrito le valenze interiori e misteriche della speculazione originaria. Sicché la sua ricerca venne circoscritta all’ambito di una riflessione prettamente razionalistica: in pratica un monologo della Ragione con se stessa, al posto del ben più ricco ed equilibrato dialogo con l’”alter ego”, con il daimon interiore, o con la scintilla divina, con la sfera archetipa, davvero altra e diversa, universale, e tuttavia appartenente all’uomo stesso. E’ pur vero che la teologia cristiana percorse una via diametralmente opposta, escludendo l’umano dal Logos per riservare questo a Dio soltanto, ma tale indirizzo contribuì ad emarginare ancor più l’uomo dall’intelligenza divina, chiudendolo dentro gli angusti confini razionalistici. “Conoscere è ricordare”, diceva Socrate alludendo alla sfera dei valori innati, purtroppo destinati a cadere in oblio per causa dei condizionamenti collettivi. Ed è una conoscenza anamnestica, caro Andrea, tutt’altro che razionalistica. E’ vero quel che dice Seneca, che a tale saggezza “conduce una sola via e, per la verità la più diretta”. E’ vero, come lui dice, che a ciò spinge “un impulso irrefrenabile”, ma quante gabbie mentali, quanti pregiudizi e quanto fango bisogna rimuovere dentro noi stessi! Un forte abbraccio.
“E’ vergognoso non muoversi con le proprie gambe, ma essere trascinati e in mezzo al turbine degli eventi chiedersi d’un tratto con stupore ‘come mai sono capitato qui?”…quale modernita’ in questo insegnamento! Grazie caro Andrea per avere riproposto questo passo! Un abbraccio. Loredana.
Sbaglio, Roberto, nell’immaginare -a fronte di questa vibrante risposta- la tua curiosità nel leggere (perché no?) il citato libro di Massimo Fini? certo, leggendolo, non è bello apprendere, per esempio, che Seneca prestasse grosse somme a usura: “pescato a compiere l’esatto contrario di quanto, da filosofo, andava predicando” (e qui la fonte precisa è Dione Cassio, Storia romana, 61,92). Che dirti, in conclusione? che la mia memoria sere addietro è stata improvvisamente rivisitata dal passo di Seneca in oggetto; sicché, nonostante la smitizzazione del suo autore -dovuta alla lettura del suddetto libro di Fini- è stato comunque dolce, per il mio animo, “riconsacrare” la saggezza di una sua riflessione (del resto a tutti cara) rivolta a Lucilio. Un abbraccio
Ti sono grato, Franco carissimo, per questo tuo ampio e denso commento al passo di Seneca in oggetto: soprattutto in relazione a quanto puntualizzi a proposito di Socrate “frainteso come lo scopritore del concetto anziché del daimon“; con “le valenze fortemente introspettive e dialogiche della sua filosofia” cancellate, “per farle antesignane del pensiero razionale e dialettico”. Del resto, in un tempo storico molto più vicino al nostro di quello di Socrate e Seneca, possiamo rammentare un Metternich che, avuta la meglio su Napoleone, infierisce contro gli spiriti liberali restaurando i governi dispotici del Congresso di Vienna. Il mio amato (non solo mio, ovviamente!) Stendhal, riteneva quanto appena ricordato espressione del contrasto fra libertà e tirranide; una sorta di “eterno ritorno” della storia; e, dunque, uno sfondo ideale per la sua Certosa di Parma, il capolavoro romanzesco sul quale ho riflettuto mesi addietro nel presente blog. Questo mio accenno all’età della Restaurazione non dovrà apparirti fuori tema, Franco; essendo motivato, in effetti, dalla mia coscienza di una cristallizzazione del tutto negativa, nei secoli, della “ragione post-socratica” -cui tu accenni- in una “ragione storica, una particolare forma di ragione-raison, un proliferante cancro di razionalismo insensibile e mediocre, scettico e preclusivo di entusiasmo, di vitalità piena”; come osserva W. Binni in La protesta di Leopardi (Sansoni Ed.,pag.46; varie ristampe). Non altrimenti avrei potuto introdurre qui in conclusione un estratto di uno stupendo e credo attualissimo passo dello Zibaldone leopardiano che mi pare quanto mai ad hoc, in merito a quel “travisamento madornale”, come efficacemente ricordi, Franco, laddove nel tuo commento accenni “all’identificazione del divino…con la ragione dell’uomo stesso”. Ma diamo la parola a Leopardi, non prima di averti salutato caramente, Franco:
… Ma la ragione non è mai
efficace come la passione. Sentite i filosofi.
Bisogna fare che l’uomo si muova per la ragione
come, anzi più assai che per la passione, anzi
si muova per la sola ragione e dovere. Bubbole.
La natura degli uomini e delle cose, può ben
esser corrotta, ma non corretta. E se lasciassimo fare
alla natura, le cose andrebbero benissimo, non ostante
la detta superiorità della passione sulla ragione.
Non bisogna estinguer la passione colla ragione, ma
convertir la ragione in passione; fare che il dovere
la virtù l’eroismo ec. diventino passioni. Tali
sono per natura. Tali erano presso gli antichi,
e le cose andavano molto meglio. Ma quando
la sola passione del mondo è l’egoismo, allora
si ha ben ragione di gridar contro la passione.
Ma come spegner l’egoismo colla ragione che
n’è la nutrice, dissipando le illusioni? E senza
ciò, l’uomo privo di passioni, non si muoverebbe
per loro, ma neanche per la ragione, perche
le cose son fatte così, e non si possono
cambiare, ché la ragione non è forza viva né
motrice, e l’uomo non farà altro che divenirne
indolente, inattivo, immobile, indifferente, infingardo,
com’è divenuto in grandissima parte.
Giacomo Leopardi, Zibaldone, 293-4 (22.10.1820).
In effetti, cara Loredana, hai focalizzato con precisione quanto, delle parole di Seneca a Lucilio, mi ha maggiormente indotto alla riflessione, sere addietro. Un abbraccio
Caro Andrea,
pensando che è molto attuale stupirsi degli eventi voluti da noi, il passo di Seneca risulta incredibilmente adatto ai tempi che viviamo, oserei dire ai giorni, che attraversiamo, ma credo sia altrettanto attuale scoprire tanta onestà sanità di intenti in un uomo che governava dando pessimo esempio.
E noi… non siamo tutti correi se da secoli diamo credito a uomini simili?
Ti ringrazio per lo spunto di riflessione e ti abbraccio!
Mi fanno piacere, cara Maria, i numerosi commenti ricevuti in merito a questo passo di Seneca, non ultimo il tuo. Un abbraccio