E tu, Cielo, dall’alto dei mondi/ sereni, infinito, immortale,/ oh! d’un pianto di stelle lo inondi/ quest’atomo opaco del Male! (X AGOSTO)
… ho riportato la quartina conclusiva della conosciutissima lirica pascoliana inclusa in MYRICAE. In attesa di poter presentare nel blog una riflessione più estesa e approfondita su Giovanni Pascoli, di cui ricorre quest’anno il centenario della morte, non posso per il momento che riconoscere l’irrompere, proprio stasera, nella mia memoria poetica, dei suddetti versi, di grande vibrazione e bellezza, seppure intrisi di cosmico pessimismo (volendo rilanciare, nella fattispecie, una fin troppo abusata “etichetta” critica -in ogni caso funzionale- riguardante i cosiddetti canti pisano-recanatesi di Giacomo Leopardi). La foto qua sopra, mia -scattata lo scorso luglio a Campigna (Forlì), piccolo abitato sotto il monte Falterona e a suo tempo visitato dal grande poeta Dino Campana ( luogo peraltro citato nei CANTI ORFICI)- si attaglia, credo, ai versi in oggetto di Giovanni Pascoli. Nella mia foto osserviamo infatti la luna sopra il crinale tosco-romagnolo…e il pensiero va, naturalmente, al sublime CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA, di Giacomo Leopardi, egemonizzato dalla rima in ALE (“…E’ funesto a chi nasce il dì natale”, dice il verso di chiusa del carme leopardiano, evidentemente tenuto nel debito conto da Giovanni Pascoli nella sua desolata contemplazione cosmica sottesa a X AGOSTO; lirica nella quale come ben sappiamo viene rievocata l’uccisione del padre del poeta e dove non a caso la terra è vista come “atomo opaco del Male!”). Segnalo infine, il lucidissimo e in qualche modo innovativo intervento di Pier Paolo Pasolini (1955) sul Pascoli in PASSIONE E IDEOLOGIA ( libro che rappresenta la massima espressione dell’attività critica di Pasolini); Garzanti, Saggi, con prefazione di Alberto Asor Rosa ( non va dimenticato che Pier Paolo Pasolini si laureò in lettere presso l’Università di Bologna nel 1945 proprio con una tesi sulla poesia pascoliana).
P.S. Dalla poesia al ricordo delle tragedie storiche più e meno recenti:
11 settembre 1973, colpo di Stato a Santiago del Cile, con l’uccisione del presidente socialista Salvador Allende e di tremila giovani, per tacere dei mille desaparecidos (gli Stati Uniti tutt’altro che neutrali);
11 settembre 2001, le tremila vittime del crollo delle Torri Gemelle a New York, per opera del terrorismo islamico capeggiato da Bin Laden.
Mio caro Andrea,
stavolta ci introduci nel mondo pascoliano, ampliando poi lo spettro al grande Leopardi e a Pasolini. Credo che con simili riferimenti e col la lirica “x Agosto” ti riproponi, riuscendoci perfettamente, di fugare le ombre tese a ridurre la figura di questo poeta. In effetti l’autore di tali versi e di moltissimi altri, che ha spinto un artista corsaro come Pier Paolo a scegliere la tesi di laurea su di Lui, nell’ambito didattico viene regolarmente ridimensionato e ridotto al ‘poeta del fanciullino’.
Con l’acume che ti contraddistingue metti in rilevo i molteplici aspetti dell’arte pascoliana e posti quattro versi, che affermo umilmente di non conoscere, ma che sarebbero sufficienti a illuminarci sulla realtà di tanto poeta. La luna può forse indurre ad andare con il pensiero a Leopardi, ma la chiusa della lirica ha una
forza espressiva del tutto personale e ci rivela i nervi nudi, la rabbia dolorosa del
Pascoli. “Quest’atomo del Male”, verso di prepotente, sanguigna forza, ci conduce sui sentieri di infinite sofferenze personali e universali.
Tu citi due tragedie che hanno caratterizzato i nostri anni e fatto traballare molte certezze. Concordo pienamente nel ricordarli e nell’asserire che eventi così drammatici investono tutte le coscienze e non ci permettono di sentirci immuni, nè innocenti. Da uomini liberi siamo sempre e comunque coinvolti, in quanto non riusciamo a dare al terzo millennio un’impronta diversa, anzi rischiamo di rendere sempre più fitto quel ‘pianto di stelle’.
Ti ringrazio, come sempre, caro amico e ti abbraccio!
Grazie, cara amica, per questo tuo commento (soprattutto per l’accenno che fai al terzo millennio). In verità non ho ancora proposto nel blog, come ho scritto nell’articolo, una sia pur sintetica ricognizione della poesia pascoliana. Ma c’è una lirica, del poeta di San Mauro di Romagna, che amo moltissimo e che a tempo debito presenterò…nessun effetto sorpresa, per carità, si tratta solo di proporla, tale lirica, nella sintonia più profonda con la stagione cui essa si riferisce…un abbraccio anche da parte mia.
Carissimo Andrea, una maledetta fretta mi impone di limitarmi, mio malgrado, ad una breve e quasi lapidaria considerazione. Questa: io trovo una grande fede cosmica, più che un cosmico pessimismo, in questi struggenti versi pascoliani. Non può sfuggire infatti il sapore catartico dell’invocazione rivolta alla serenità dei cieli e al loro pianto per le miserie umane. Il poeta qui invoca le potenze cosmiche per redimere il mondo degli uomini invaso dal male. Il suo pessimismo riguarda gli uomini e non il cosmo o la natura in generale. E’ vero che lui vede e definisce la terra come “atomo opaco del Male”, ma solo perché la terra ospita (per sua sfortuna, oserei dire) quel cancro del cosmo che è il genere umano. Non si può confondere la terra con quel mondo avulso dalla terra che noi uomini abbiamo creato. Spero, caro Andrea, di poter tornare con calma su questo argomento e intanto ti abbraccio, ringraziandoti per le riflessioni importanti che di continuo induci a fare.
Carissimo Franco, quanto mai lucida e interessante questa tua “lapidaria considerazione”, centrata su una distinzione assennata e condivisibile. Tuttavia, se andiamo al testo pascoliano in oggetto, X AGOSTO, iuxta propria principia, vedremo senz’altro in esso la dilatazione cosmica del sentimento del MALE da parte del poeta (e “Male” non a caso risulta nel testo in maiuscolo e in posizione metricamente fortissima, quale parola di chiusa della lirica). Non a caso, poi, proprio la prima fase della riflessione leopardiana nello Zibaldone è focalizzata sulla dicotomia tra la filosofia e la poesia nei “moderni”, con la prima non di rado soffocante la seconda (e, tale posizione leopardiana, prima della stesura delle OPERETTE MORALI e dunque della cognizione cosmica del male da parte del Recanatese; a seguito della quale il “pensiero” diventerà pensiero poetante in grado di “dettare” una gnome della forza di “Piacer figlio d’affanno”, nella QUIETE DOPO LA TEMPESTA). Ma torniamo a Giovanni Pascoli. Io ritengo semplicemente che il poeta, maestro di ars poetica però uomo di una sensibilità fragile e sostanzialmente cristallizzata nelle sue fissità patologiche -come puntualizza benissimo l’intervento critico pasoliniano da me citato- pur cosciente della bellezza e della estraneità del cielo alle umane nefandezze, si sia lasciato andare al dolore sempre vivo per l’uccisione del padre e a quanto la vita ci riserva in termini di sofferenza; fino al punto di pronunciare, poeticamente (e forse non involontariamente), quell’ultima parola, “Male”, in maiuscolo; in chiave dunque totalizzante; fertilmente discutibile, come peraltro dimostra questo nostro dialogo. In attesa di una tua graditissima e più ampia replica, ti saluto e ti abbraccio.
Carissimo Andrea,
accolgo con piacere e gratitudine il tuo invito ad una più distesa esplicazione del mio pensiero in merito al cosiddetto pessimismo cosmico (leopardiano e pascoliano). Ciò che da parte mia è in discussione non è la liceità del dolore del Pascoli per l’uccisione del padre (ci mancherebbe altro!), ma l’attribuzione di quella nefandezza al pianeta o alla natura in generale. Io credo che il poeta fosse consapevole che l’”atomo opaco del Male” è l’uomo e non la Terra. Tant’è che nella metafora della rondine uccisa dal cacciatore (similmente all’uccisione del padre) egli vede e considera la stessa natura come vittima delle efferatezze umane.
Ammetto, intendiamoci, che per estensione simbolica si possa usare la Terra al posto dell’Uomo, ma la vera valenza simbolica di quell’immagine deve comunque essere chiara. Per il Leopardi il discorso si complica, data la doppia natura di grande poeta e di formidabile pensatore che di lui conosciamo. E qui ci tengo a sottolineare la mia condivisione del pensiero leopardiano, laddove si focalizza sulla distinzione tra filosofia e poesia, “con la prima non di rado soffocante la seconda”, come tu giustamente ricavi.
Tranne il caso – aggiungo io – in cui il filosofo si attenga ai principi dell’armonia dei contrari, che è lo stesso cardine intorno a cui ruota, a parer mio, la poesia. Non essendo tuttavia questo l’ideale filosofico leopardiano, io trovo difformità tra il poeta che dichiara di odiare la natura ed il cosmo proprio perché li ama, ed il pensatore che viaggia in direzione intellettualistica, schematica, contraria alla dolente armonia espressa nel “Piacer figlio d’affanno”, come in altri splendidi e famosi ossimori (“il naufragar m’è dolce in questo mare”, tanto per fare un sublime esempio).
Ma torniamo al Pascoli. La dilatazione cosmica del Male che notiamo nel “X Agosto” è un sentimento così totalizzante, così universale, che non può non includere il suo contrario entro i propri confini, visto che il Tutto è per sua natura onnicomprensivo e deve necessariamente accogliere tutto, finanche il suo contrario. Il Male intride certamente di sé l’universo intero, ma si manifesta sempre e comunque in inscindibile unione con il Bene universale. Sono due facce della stessa medaglia. Io trovo che sia così dovunque, tranne che nell’arido mondo umano, dove ci si illude di poter separare i due principi per tornaconto razionale. E ciò ingigantisce il senso del Limite, che è solo un altro modo di definire il Male.
La malvagità e l’ingiustizia che il Pascoli lamenta riguarda pertanto il mondo degli uomini, rei di compiere tale dissacrazione, tale assassinio dell’amore, e non certo il mondo celeste, distante – è vero – dalla perversione degli uomini, ma anche a loro vicino nel conforto e nella redenzione possibile, come prova la struggente invocazione del poeta che sappiamo. E come può la terra, entità del cosmo, non essere parte integrante del mondo celestiale? Essa è e resta il luogo dell’Eden e non quel luogo della perdizione, quella valle di lacrime che noi l’abbiamo fatta diventare, tradendo il progetto che ci inserirebbe a pieno titolo nella sua magnificenza e nel suo splendore.
Mi auguro, caro Andrea, di avere chiarito un po’ meglio il mio pensiero, anche se mi rendo conto che il vespaio smosso rischia di peggiorare la situazione. Ci sarebbe molto da aggiungere e da spiegare, ma spero – come sai – di poterlo fare con la dovuta cura in qualche mio prossimo trattato. Ti abbraccio fraternamente, come sempre, in unità di umani intenti.
Carissimo Franco, eccomi a rispondere alla tua densa e stimolante riflessione sul pessimismo cosmico (leopardiano e pascoliano). Inizierei dal nichilismo del Pascoli, così come esso si esprime nella lirica X AGOSTO oggetto della nostra discussione, spero interessante per i visitatori del blog. Ebbene, non è difficile darti ragione soprattutto quando sostieni che “la dilatazione cosmica del Male che notiamo nel X Agosto è un sentimento così totalizzante, così universale, che non può non includere il suo contrario entro i propri confini, visto che il Tutto è per sua natura onnicomprensivo e deve necessariamente accogliere tutto, finanche il suo contrario”. Del resto, direi, la “debolezza teoretica” del poeta di San Mauro di Romagna (coesistente con il suo audace e fertile sperimentalismo formale), presta volentieri il fianco a correttivi più che ragionevoli e argomentati; anche perché, dal punto di vista più strettamente letterario, la poesia pascoliana dimostra tutto il peso dell’eredità romantica europea in quanto a ricchezza simbolica, analogica, rimandante non di rado alla dimensione onirica. Proprio per questo, non starò a insistere sul sentimento del Male che, parimenti a una macchia di petrolio, comunque inquina, a mio avviso, in X AGOSTO, la chiarità di stelle, rondini e bontà d’intenti di un poeta trafitto da un dolore più che mai vivo per l’omicidio del padre. Per Leopardi, però, le cose stanno ben diversamente, in virtù della sua doppia natura di poeta altissimo e formidabile pensatore. Appoggiandomi all’auctoritas di un italianista insigne come Pier Vincenzo Mengaldo, autore di un saggio densissimo sul grande Recanatese, LEOPARDI ANTIROMANTICO (Ed. il Mulino, Bologna, 2012), converà qui anzitutto ribadire la natura razionale, allegorica (non simbolica!) e distributiva della poesia leopardiana, di classica, “greca” purezza. Duole tuttavia dover constatare che, non tenendo strettamente presente lo ZIBALDONE quando si parla di Leopardi, ecco che, fatalmente, il poeta e il filosofo che sono in lui finiscono per contraddirsi, agli occhi del lettore. D’altronde perché stupirsi di ciò, se un critico insigne come Francesco De Sanctis ha frainteso in chiave spiritualistico-irrazionale L’INFINITO? volendo tacere per carità di patria di Benedetto Croce, al quale occorre addebitare tutto il peso negativo di una rigida distinzione fra “poesia e non poesia”, con buona pace per la comprensione della moderna poesia europea (non solo di Leopardi nella sua integrità). Di fatto, caro Franco, sarà Leopardi stesso a spiegare il senso del suo sublime idillio L’INFINITO del 1819 in densissime pagine dello ZIBALDONE del 1820, quelle celeberrime intorno alla materialistica “Teoria del piacere”. Potremmo così parlare, a conti fatti, all’altezza del 1819-20, di un poeta geniale che anticipa e sovrasta il pensatore (ancora). Le cose, però, cambiano radicalmente con l’infittirsi delle pagine dello ZIBALDONE dopo il 1820; e, soprattutto, con la grande esperienza della prosa delle OPERETTE MORALI: all’interno delle quali, è d’obbligo riconoscere nel DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE (scritto nel 1824) il pilastro del più maturo pessimismo leopardiano. In esso, com’è noto, è disegnata un’allegoria (non un simbolo!) a dir poco memorabile: “una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto…di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e capelli nerissimi” intenta a squadrare il povero Islandese capitato fin lì, nella sperduta isola di Pasqua; e tale inquietante creatura è ovviamente la Natura, che dice chiaro e tondo al suo interlocutore: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie…sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini e alla infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo…io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto e vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”. Orbene, da qui, da questo punto di non ritorno prenderanno le mosse i grandi Canti piano-recanatesi del 1828-30; laddove poesia e pensiero divengono, anzi, sono una sol cosa, un sinolo (per dirla con Aristotele); tant’è che, come spiega benissimo Mengaldo nel suo saggio sopra citato, la saturazione melodica (in funzione materialistica) dei versi leopardiani di questi anni non può e non vuol celare un “pensiero aguzzo”, seppure intriso di pietas verso le forme di vita tutte. Così dicendo, mi trovo ovviamente costretto a respingere, caro Franco, la dicotomia cui tu accenni tra il “poeta e il pensatore che viaggia in direzione intellettualistica, schematica, contraria alla dolente armonia espressa nel PIACER FIGLIO D’AFFANNO…”. Altro che di dolente armonia dovremmo nella fattispecie parlare, a proposito di tale sentenza scaturita da una persuasione di pensiero che è quella fissata nella suddetta OPERETTA MORALE! infatti, Pier Vincenzo Mengaldo, a conclusione del suddetto saggio, nel suo stupendo PER UN COMMENTO ALLA QUIETE DOPO LA TEMPESTA, osserva che, in detta poesia, “l’Ogni cor si rallegra” della prima lassa, subisce un drastico ed evidente rovesciamento, come ripresa incipitaria della seconda lassa: “Si rallegra ogni core…” (settenario secco; pensiero poetante -per usare l’espressione felice di Antonio Prete- veramente in atto ma non piombato lì per caso, a disturbare magari il quadretto di genere della prima lassa, l’effusione idillica da “ultimo pastorello d’Arcadia” (in accezione crociana); così come Leopardi è stato scorrettamente “mutilato” dalla critica idealistica e forse continua a esserlo da parte di coloro che cercano nel Recanatese (trovandola) solo consolazione; e non quel pessimismo energetico, vitale, agonistico e infine sapienziale individuato e debitamente valorizzato soprattutto a proposito della suprema GINESTRA da parte dei più autorevoli studiosi leopardiani dal secondo Novecento ad oggi. Mi perdonerai, spero, caro Franco, questa torrenziale risposta (in cui peraltro non c’è molto di mio) alla tua riflessione: avendo del resto a che fare con un gigante come Leopardi, è stato bene, credo, dargli la parola, come ci accingo ancora una volta a fare (e questa volta si tratta di una pagina stupenda e famosissima dello ZIBALDONE, non a caso tradotto negli ultimi anni in varie lingue, a riprova della sua fertile e inquietante possanza di pensiero e acuto spirito d’osservazione):
“Entrate in un giardino di piante, od’erbe, di fiori. Sia pur quanto
volete ridente. Sia nella
più mite
stagione
dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte
che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia
di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno.
Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga,
langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’
ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali.
Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api
senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata
di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio,
quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è
ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello
è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche;
quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei
frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce,
troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro
nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi,
o si affatica e stenta per arrivarvi. Qua un ramicello è rotto o dal vento
o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore,
vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa
o quella pianta, staccata e strappata via. In tutto il
giardino
tu non
trovi una
pianticella
sola in
istato di
sanità
perfetta… Intanto tu strazi le
erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi,
le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando
e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando
membra sensibili, colle unghie, col ferro. Certamente queste piante vivono; alcune perchè le loro infermità non
sono mortali, altre perchè ancora con malattie mortali, le piante, e gli
animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo
spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra
l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma
in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto
ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri
sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che l’essere il non essere
sarebbe per loro assai meglio che l’essere.” (Bologna 22 Apr. 1826).
Ecco, quando si legge una pagina del genere non si dovrà negare a Leopardi il suo pieno diritto a professare una “filosofia disperata ma vera” (secondo le sue stesse parole) non in quanto menagramo (ricordando l’astio del suo contemporaneo Tommaseo) ma spirito acutissimo, in grado di percepire il dolcissimo odore della ginestra, l’umile fiore “che il deserto consola”. Ti abbraccio anch’io fraternamente come sempre, caro Franco.
P.S. Ieri mi è pervenuta in forma privata la bellissima risposta di Franco Campegiani al presente mio scritto. Con l’assenso del mio ottimo amico, intendo qui di seguito pubblicarla, ritenendola di grande spessore umano:
Carissimo Andrea, ieri pomeriggio, quando mi è giunto il tuo sms, ero a casa di amici, dove ho fatto tardi. Leggo soltanto adesso la tua vibrante risposta, di cui ti sono grato, e ti rispondo a mia volta privatamente, senza entrare nel blog, dove rischieremmo di essere ripetitivi. Come sai, io entro tutti i giorni, da una vita, “in un giardino di piante o d’erbe, di fiori” e ti assicuro che potrei aggiungere un’infinità di altre osservazioni al’elenco di crudeltà enumerate da Leopardi (delle quali lui probabilmente non sospetterebbe neppure l’esistenza). E’ ovvio, a mio parere, che la natura svolga il proprio ruolo senza pensare agli esseri umani o ad altre creature viventi. Sta di fatto che , proprio svolgendo questo ruolo con indifferenza, lei pone in essere leggi d’amore autentiche (ossia non sdolcinate o melense, come accade nel genere umano sovente). L’amore vero è pieno di scortesie e di sgarbi, come quelli della cagna che con morsi ringhiosi, al momento debito, scaccia i cuccioli dalle proprie poppe. Lei è spinta dall’egoismo, perché non ha più latte e i cuccioli le arrecano dolore, come le arrecherebbe sicuramente dolore, quando le poppe le esplodono, il non donare quel succo vitale. Ma quali lezioni di altruismo e di amore provengono da questo egoismo! In virtù di esso, i cuccioli crescono accuditi, fino a quando, con l’allontanamento, vengono spinti ad essere padroni di se stessi. Ti prego, caro Andrea, di non considerarmi un idealista o un romantico. Credo di conoscere abbastanza i problemi e le difficoltà della vita, ma ho anche conosciuto gente del popolo, uomini e donne della morta e sepolta civiltà contadina (alcuni anche analfabeti), che mi hanno dato formidabili lezioni d’amore e di vita. Parlo di gente che senza battere ciglio ha accettato condizioni di vita insopportabili per noi esseri civili (imborghesiti), continuando a vivere e a lottare, non per assurdi ideali, ma per una fede personale e indistruttibile nella vita. Non aggiungo altro, carissimo amico, a questa nostra stimolante conversazione, e ti saluto affettuosamente, come e più di sempre.
Franco