In occasione dei COLLOQUI SULLA CONTEMPORANEITA’ (Rassegna Culturale a cura di Natale Sciara, alla sua sedicesima edizione; presso la Sala convegni della Pro Loco di Ciampino, Roma), ho parlato questo pomeriggio “a braccio” della poesia di Giorgio Caproni. Ma ecco il testo da me scritto in mattinata, e che dedico al mio carissimo amico Luciano:
SULLA POESIA DI GIORGIO CAPRONI
Nel centenario della nascita di Giorgio Caproni, mi sta particolarmente a cuore parlare di un poeta fra i più alti del nostro secondo Novecento. I lettori che amano il grande Livornese, e sono in molti, sanno di una innegabile cesura fra il primo Caproni e il secondo Caproni, per così dire; cesura sulla quale converrà insistere qui proprio per tentare di comprendere le ragioni di una voce poetica più che mai viva e incisiva nei tempi attuali. Così dicendo, ecco che non possiamo non individuare nel CONGEDO DEL VIAGGIATORE CERIMONIOSO & ALTRE PROSOPOPEE (1965), la suddetta cesura fra quanto precedentemente pubblicato da Caproni e la grande Trilogia compresa fra gli anni Settanta e Ottanta (IL MURO DELLA TERRA, 1975; IL FRANCO CACCIATORE, 1982; e il CONTE DI KEVENHŨLLER, 1986). Basterà, al riguardo, rileggere la chiusa della poesia che dà il titolo alla citata raccolta del 1965 (dedicata all’attore Achille Millo): “Ora che più forte sento/ stridere il freno, vi lascio/ davvero, amici. Addio./ Di questo, sono certo: io/ son giunto alla disperazione/ calma, senza sgomento./ Scendo. Buon proseguimento”. Non posso negare, per quanto mi riguarda, di nutrire un sentimento quasi di devozione per tali versi: essi, infatti, nella loro disarmante semplicità, si fanno profonda metafora della condizione umana; talché, a questo punto, la voce di Caproni conquista maggiore libertà tematica e formale rispetto alle precedenti e pur splendide e distese prove (il pensiero va, soprattutto, ai celebri Versi livornesi inclusi nel SEME DEL PIANGERE, 1959, Premio Viareggio, e dedicati ad Anna Picchi, madre del poeta; poeta-violinista, peraltro, essendosi diplomato in tale strumento e in composizione a Genova, in giovane età). Sia come sia, con il CONGEDO del 1965 (l’anno di un traumatico intervento operatorio per il poeta, che da allora fino alla morte vivrà da “resecato gastrico”, per sua stessa definizione); sia come sia, stavamo dicendo, col CONGEDO, comincia il viaggio metafisico di Giorgio Caproni, fuor d’ogni retorica. Il grandissimo cantore di Genova, sua città d’adozione, e della madre fidanzata del poeta (che intuizione, quella di cantare la giovinezza materna!); cantore nel contempo antico e de-costruttivo rispetto alla nostra grande tradizione metrico-stilistica; questo cantore, insomma, col CONGEDO, scopre le sue carte decisive di “cerimonioso dicitore del nulla”, come osservato da Italo Calvino; ben più pacato e disincantato risultando, il Livornese, rispetto allo stesso Montale (con il suo “terrore di ubriaco”, riferendosi alla celebre lirica nichilista degli OSSI DI SEPPIA). Ormai, con il CONGEDO del 1965, la strada è segnata per Giorgio Caproni. Questo poeta dalla vocazione “minore” –austero e riservato, maestro elementare per tutta la vita, capace di negare a Gianfranco Contini una recensione al CONGEDO- parlerà con la sua voce più alta nel 1975, dando alle stampe il MURO DELLA TERRA, accolto con grande favore di critica e di pubblico. Con il MURO, infatti, tutto è mirabilmente al suo posto; nel senso che, in esso, la densità metafisica di una evidente “ontologia negativa” (sempre per citare Calvino), è una cosa sola con una forma “frantumata e ellittica” (com’è stato osservato da più parti); la cui qualità più corrosiva, forse, consiste nella chiusa delle poesie: senza punti di domanda che possano favorire un rassicurante dialogo con il lettore. Detta qualità di Caproni, è stata individuata felicemente da Carlo Bo, il grande critico da me citato a proposito di Giuseppe Ungaretti; senza stupirsene più di tanto, ché, in tutta evidenza, Carlo Bo ha avvicinato i nostri grandi poeti del Novecento più intensamente di altri; nel senso umano del termine, prima ancora che dal punto di vista critico-letterario. Ma torniamo a Giorgio Caproni. Dopo il FRANCO CACCIATORE del 1982 (laddove si può percepire un certo “manierismo” rispetto al libro precedente, come osserva Pier Vincenzo Mengaldo), eccoci al cospetto dell’ultimo grande libro di Caproni: IL CONTE DI KEVENHŨLLER, 1986. Con tale raccolta la poesia di Caproni raggiunge una stoica, rarefatta scansione; con alte e attualissime punte di merito nell’indicarci l’inquietante ambivalenza fra l’Essere e il Nulla: quasi il poeta si fosse dotato di un misterioso periscopio grazie al quale scrutare la scaturigine tutt’altro che rassicurante di tutti gli ossimori, di tutte le ambiguità (senza dare cioè l’impressione di una pratica letteraria e forzata dei contrari, a posteriori). Così, nel CONTE DI KEVENHŨLLER, il cacciatore è la sua preda; la Bestia, per la cui uccisione il Conte ha promesso bei soldoni alla popolazione, è sfuggevole e parte di noi; e si potrebbe continuare a lungo. Vorrei concludere questo mio scritto ricordando il funerale di Giorgio Caproni (il poeta morì il 22 gennaio del 1990) senza presenza delle autorità nel quartiere romano di Monteverde; in perfetto stile con la riservatezza e il distacco del grande Livornese, si potrebbe affermare con amara asciuttezza. Ma i versi di un poeta come Caproni sopravvivono eccome, all’indifferenza dei potenti, nella mente e nel cuore dei lettori; e dentro di me in modo particolare –mi sia concesso di dire- avendo io abitato dal 1969 al 1980 a trecento metri dal poeta, a Monteverde. Io giovane ancora e alle prese con le mie prime liriche; lui, nella sua ultima stagione: incisore –a quali altezze!- del male di vivere.
P.S. La foto sopra presentata è stata da me scattata lo scorso anno all’interno di uno dei cosiddetti “grattacieli” in via di Donna Olimpia, a Roma; situato proprio di fronte alla chiesa in cui si sono svolte, il 23 gennaio 1990, le onoranze funebri di Giorgio Caproni. Superfluo sottolineare, infine, un’ulteriore dedica a proposito del suddetto testo: il mio pensiero va alla signora Silvana, figlia del grande Giorgio, con la quale ho avuto, di recente, un colloquio telefonico. E’ stato bello in effetti per me, prima di parlare della poesia del Livornese, trasmettere al pubblico presente in sala il saluto di Silvana Caproni.
Questo pomeriggio (22.5.2012), la signora Silvana mi ha telefonato, per ringraziarmi e complimentarsi con me in merito al suddetto testo (che verrà incluso nella raccolta dei contributi critici e delle testimonianze in occasione del centenario della nascita del suo grande papà, il poeta Giorgio Caproni).
Recensione finissima, precisa, dettagliata e acuta d’intuizioni illuminanti, Andrea. Mi complimento col cuore, ancora una volta con te; e per la bella fotografia postata che mi ha portato ricordi mai veramente cenere, oppure cenere con guizzi di brace…Bravo!
Mirka
Grazie, cara amica a mia volta di cuore; giacché mi hai dato testimonianza di aver percepito un afflato particolare nel mio scritto: dovuto al confronto serrato da me avuto nel tempo con un poeta come Giorgio Caproni, nobile e austero, ironico e musicale…e verecondo, rispetto alle luci della ribalta, troppo luccicanti per abbagliarlo. Un abbraccio
Carissimo Andrea, la strada che la cultura contemporanea ha percorso, e sta ancora percorrendo, sembra procedere irrevocabilmente dall’Essere verso il Nulla, ma non è così, perché il senso di marcia può essere invertito in qualsiasi momento e senza problema alcuno. Ritengo che lo sconvolgimento provocato dal Nichilismo sia stato utilissimo, in quanto ha sgretolato i luoghi comuni e cancellato le proposizioni trionfalistiche di ogni gratuita metafisicheria, ma occorre vigilare affinché non si giunga oggi a visioni arbitrarie del mondo pari e contrarie. Niente è a senso unico, in quanto la realtà non è lineare, ma ciclica, ed ogni fine corrisponde ad un inizio, così come ogni inizio sorge da una fine. Ho apprezzato moltissimo la tua conferenza su Giorgio Caproni: dotta e al tempo stesso vibrante, come è nelle tue caratteristiche intellettuali ed umane, da tutti conosciute ed amate. Giustamente tu hai sottolineato, parlando del grande livornese (di questo “cerimonioso dicitore del nulla”), l’“inquietante ambivalenza fra l’Essere e il Nulla”, da cui deriva la meravigliosa “scaturigine tutt’altro che rassicurante di tutti gli ossimori”. Permettimi di aggiungere che sta esattamente qui, a mio parere, in questa stupefacente e vitale contraddizione, l’indiscutibile e misteriosa realtà degli equilibri e delle armonie universali. Scrive Caproni – come tu ricordi – nel suo CONGEDO: “Son giunto alla disperazione / calma, senza sgomento. / Scendo. Buon proseguimento”. Come non leggere in filigrana quella padronanza di se stesso, quella confidenza con se stesso e quell’accettazione del proprio mistero, che rivela una poderosa evoluzione interiore? Ritengo che si possa giungere a tali altezze provenendo da qualunque direzione: dal nero come dal bianco, dal vuoto come dal pieno. Giorgio Caproni, con la sua visione stoica del mondo e con la sua “ontologia negativa”, mostra come si possa tranquillamente giungere alla serenità dello spirito percorrendo questa via negativa. Ti abbraccio idealmente, caro Andrea, ringraziandoti per le preziose riflessioni che stimoli nei tuoi lettori.
Carissimo Franco, non posso che concordare con quanto sostieni, a proposito del percorso umano e artistico di Giorgio Caproni. Come non pensare, infatti, in chiave strettamente attinente, al valore energetico del pessimismo leopardiano che, profondamente inteso, insegna ad amare maggiormente la vita? Così, tornando a Giorgio Caproni, ecco la nostra percezione di uno sguardo preciso, pacato, sul nulla che -intrepidamente presso in carico dalla sua coscienza di uomo e di artista- non ci impedisce, anzi, ci stimola al senso della misura, a quell’equilibrio grazie al quale ci configuriamo con una postura adulta, nel nostro essere nel mondo. Del resto, la vita del grande Livornese è tutta una testimonianza del suo rifiuto degli eccessi (mai torvo e compiaciuto, il suo nichilismo, considerando soprattutto il tenace lavoro di maestro elementare a disposizione dei trovatelli, negli ultimi anni del suo insegnamento). Mi piace infine ricordare qui che uno dei suoi brani prediletti era il movimento lento del Quartetto per archi op.132 di Beethoven, altrimenti noto come Canto di ringraziamento…è dolce immaginare quindi il sorriso del grande Giorgio, il suo sospiro di sollievo nel demistificare le illusioni, le luci del varietà; con i suoi versi taglienti che però non sono le sciabolate del suo grande amico Pasolini, bensì colpi di fioretto. In conclusione grazie, caro amico, per questa tua meditazione bella e profonda in onore di Giorgio Caproni: integrando, di fatto, quanto di buono posso avere espresso nel mio scritto e detto ieri l’altro. Un forte abbraccio.
Carissimo Andrea,
m’inviti a parlare di un poeta davvero dal “nobile riserbo” che, tuttavia o, meglio, proprio per questo sta ottenendo l’attenzione che merita dalla critica più accorta ed esigente. Il tuo scritto (che, come al solito, non si lascia sfuggire ciò che la poesia soltanto suggerisce), il tuo testo – dicevo – contiene due acclarate verità: quella della “vocazione minore” di un poeta che scarnificandosi sempre più ma non ripudiandosi come “fine cantore”, giunge – così, semplicemente – ad interrogarsi sulle maggiori e più impegnative questioni metafisiche, risolvendole (poeticamente parlando, è ovvio) in quella “ambivalenza fra l’Essere e il Nulla” (da te messo in evidenza) che rappresenta, senza dubbio alcuno, l’altra verità – come dicevo – degli ultimi sviluppi di questa poetica.
Mi congratulo, dunque, con te per questo nuovo difficile confronto cui mi dispiaccio di non aver potuto assistere di persona. E concludo con un aforisma dello stesso Caproni che – mi sembra – possa compendiare efficacemente quell’ idea di sopravvivenza dei versi nonostante “l’indifferenza dei potenti”: “LA MORTE NON FINISCE MAI”; un ossimoro di rara intensità e – a mio avviso – indistruttibilmente positivo.
Un abbraccio, e grazie per avermi interpellato,
Sandro
Caro Andrea, l’altra sera, a Ciampino, è valsa veramente la pena. Ascoltare la tua bella conferenza sulla vita e sulla poesia di un uomo per quanto sia molto lontano, per sua ferma volontà, dalle luci del successo, ha trasformato quell’oretta trascorsa insieme in un piccolo viaggio all’interno di un mondo finemente complicato; così com’è quello della grande poesia (la stessa cosa successe quando parlasti di Ungaretti in quel di Frascati). Dico questo non per complimentarmi, ma perchè è ammirevole questo saper entrare in quel mondo e riconoscerne il valore. Le conferenze in fondo si fanno anche per far conoscere gli autori ed io, che di Caproni avevo letto qualche poesia, sono uscito con una diversa consapevolezza.
Leggendo il ‘Congedo del viaggiatore cerimonioso’ sono rimasto impressionato dalla straordinaria metafora della vita, e non tanto per la metafora stessa, fin troppo evidente, quanto per la facilità con cui Caproni riesce a descrivere una cosa così realistica mettendola, al contempo, in relazione con quel mondo interiore da cui scaturisce l’arte, in cui è compreso il Nulla, che può essere il Poco; punto fermo della sua ricerca poetica e della pacata disperazione che, rivelata a quel modo, è qualcosa di sconvolgente. Oltre alle poesie quali ‘Preghiera ‘ ed altre, lette da te martedì sera, io ho letto anche un brano da ‘Il passaggio di Enea’, dove i versi che parlano di paesaggi intimi ‘saltellano’ tra un rigo e l’altro riportando ancora, al lettore di oggi, nonostante la lontananza da quell’asciuttezza che caratterizzerà il suo ‘secondo periodo’, una freschezza straordinaria. Un Caproni da leggere e ancora da scoprire quindi; e sono d’accordo con te quando hai ricordato l’ingiusta indifferenza dimostrata dalle autorità in occasione della sua dipartita. Un saluto Roberto
Caro Roberto, questo tuo commento è per me di grande significato. Aver parlato “a braccio”, l’altra sera a Ciampino, nonostante il testo scritto in mattinata, ancora una volta ha pagato, evidentemente. Sì, mi sono stancato parecchio e il giorno dopo mi sono ritrovato sul posto di lavoro con un brutto mal di testa: abbondantemente risarcito, però, a questo punto, da quello che mi hai scritto…di te, lettore attento e “robusto”, che si è messo profondamente in contatto con il grande Giorgio. E’ bello tutto questo, caro Rob! un abbraccio forte.
Carissimo Sandro, ci tenevo eccome a un tuo commento! un poeta come Giorgio Caproni va profondamente onorato, nel centenario della sua nascita; avendo tu, io, Franco, Roberto e quanti mi hanno ascoltato o leggeranno, consapevolezza della fibra davvero nobile del grande Livornese: come uomo e come artista. Bellissima la citazione che hai fatto: essa, con acutezza, permette di rendersi conto fino in fondo della forza di questo poeta incisore, come lo chiama Mengaldo; e di una esattezza chirurgica, come sottolinea Citati. Un ringraziamento e un forte abbraccio da parte mia.
Caro Andrea, vorrei ringraziarti per il grande regalo che ci hai fatto rendendo merito alla meravigliosa figura di Giorgio Caproni, raffinato artefice di una poesia viva e sincera in cui è veramente facile ritrovarsi. Una figura assai importante non solo dal punto di vista letterario ma anche come vivida testimonianza di generosa umanità. Nelle sue liriche oltre ad una saggezza straordinaria traspaiono la nobiltà d’animo e il pensiero rivolto al bene comune, retaggi del suo passato di partigiano e di appassionato insegnante. Due valori che in questo desolante momento storico bisogna assolutamente rilanciare. Come sempre poi nel darci la descrizione curata e fedele del poeta e delle sue opere ci hai trasmesso la gioia che provi nel condividere con l’autore il suo amore per la vita, il suo coraggioso cammino verso la libertà. Diviene così naturale per noi continuare a cercarlo e non solo nei libri o in rete ma anche nei nostri spazi interiori, sfiorando delle corde che continuano a vibrare ben oltre il termine delle tue parole. Eccolo dunque il bel regalo a cui accennavo all’inizio, un dono che oltretutto in questo splendido blog chiunque può impreziosire con il suo palpito, la sua emozione, la sua voglia di donare.
Grazie di cuore e a presto Paolo
Grazie, caro Paolo, per questo tuo commento. I ritmi frenetici delle nostre giornate non sempre ci permettono di essere fisicamente presenti, ma le tue parole esprimono al meglio il consapevole godimento della poesia di un autore fra i più grandi del nostro secondo Novecento. Sì, hai detto bene, a proposito della mia gioia riguardo ai versi del Livornese; giacché in essi vibra la pienezza della sua umanità: scettica ma non cinica, pungente eppure sorridente. Un abbraccio