Ecco, stasera che la luna è vicinissima alla terra (qui, da Roma, la si vede incombente sulle nostre confuse teste) e che da ore, ormai, è scattata l’operazione militare ODISSEA ALL’ ALBA contro il dittatore libico; sarebbe facile, credo, stasera, dando la parola a Leopardi, farlo attaccare con il suo celeberrimo “Che fai, tu, luna, in ciel? dimmi, che fai?”; meno scontato, forse, far pronunciare al grande Recanatese direttamente la seconda lassa del suo CANTO NOTTURNO (non a caso ho scelto, a suggello visivo, il celebre VECCHIEREL di Gustave Dorè, con cui l’artista francese ha illustrato a suo tempo il canto leopardiano):
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Giacomo Leopardi, dai CANTI, CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ ASIA
Sopra questo nostro angolo di mondo comunque sconvolto dalla catastrofe giapponese e con la guerra alle porte (dopo un grottesco baciamano di cui abbiamo già parlato), stasera la luna splende gigantesca e bellissima. “Il vecchierel canuto et biancho” del sedicesimo sonetto della prima parte del CANZONIERE petrarchesco, filtrato e ricreato dolorosamente da Giacomo Leopardi nel suo CANTO NOTTURNO, credo parli a tutti noi (non da oggi) con accenti di vibrante verità.
E se non fosse stato casuale, amico mio , che la luna si fosse trovata nel perigeo proprio la notte in cui è stata dichiarata guerra alla Libia?
La tua percezione di inserire sul blog “Il canto notturno di un pastore errante”, ha sapore di premonizione.
Il vecchierel canuto e bianco s’identifica in modo impressionante con la stanca coscienza collettiva, prostrata dalle ipocrisie, dai mali, dalle tempeste naturali.
E la luna, più vicina, potrebbe rappresentare la volontà di affiancarsi alla terra, di accarezzarla con il suo sguardo antico e di unirsi al suo pianto.
Ma il vecchierel pur ‘infermo / mezzo vestito e scalzo / , cade e risorge… Ecco, Andrea, ancora una volta vorrei soffermarmi su questo verbo. Dopo i periodi infausti, come quello che stiamo attraversando, la resurrezione deve avvenire! La coscienza
ci distingue da tutti gli altri esseri viventi ed è una forza di cui non possiamo sottovalutare il potere.
Ti ringrazio per lo splendido contributo e ti invito a credere con me!
E’ bello da parte tua, cara amica, per lo spirito che possiedi, focalizzare lo sguardo su quel verbo “risorge”, a proposito del vecchierel leopardiano. Ho compreso il carattere tutt’altro che epidermico del tuo ottimismo. Del resto, un grande critico leopardiano quale Walter Binni, ha insistito a più riprese sul sostrato “energetico” del pessimismo del Recanatese; pessimismo che, di fatto, pur sempre presente a se stesso, approderà all’altissimo solidarismo della Ginestra. Ma non è certo il caso, in un momento del genere, di farmi risucchiare dall’accademismo. Accolgo quindi con interesse e rispetto il tuo commento, come ulteriore invito alla riflessione. Un abbraccio.
Carissimo Andrea, dalla mia postazione di pensiero non posso che affiancare la tesi sostenuta da Maria (e mi sembra anche da Angiolina in uno degli articoli successivi) a proposito della “rinascita”. Forse il grande Recanatese, che ha l’indubbio merito di avere dissacrato le boriose metafisicherie e gli sciocchi trionfalismi sulle “magnifiche sorti e progressive”, non sarebbe d’accordo con noi (me e le due amiche, intendo) su questa esigenza della rinascita; o, se dovesse ammetterla, lo farebbe probabilmente evidenziando che si tratta di un’utile illusione. Tuttavia io ritengo che sia una legge dell’Equilibrio e non dello squilibrio metafisicheggiante, ovvero dell’illusione. Ora, da un punto di vista statico (in medio stat virtus), l’Equilibrio pretenderebbe un bilanciamento perfetto tra materialismo e spiritualismo, mentre da un punto di vista dinamico (che è poi quello più realistico) non può che essere pensato come “Azione Equilibratrice”: azione che prevede lo sbilanciamento ora da un lato ora dall’altro. Io giudico altamente meritoria l’opera di demitizzazione svolta da Leopardi e dagli spiriti più illuminati dei nostri tempi, ma con molta umiltà vorrei permettermi di osservare che non può esistere negazione senza affermazione, e viceversa. Il Nulla e l’Essere si giovano l’uno dell’altro. Direi di più: non c’è l’uno senza l’altro. La cultura contemporanea si è impantanata drammaticamente negli acquitrini del Nulla, dove rischia di annegare (lo vediamo e tocchiamo con mano nelle tristi vicende attuali). Per uscire dall’impasse, dobbiamo tornare alle ragioni dell’Essere, facendolo risorgere dalle ceneri come l’Araba Fenice. Vorrei dire al grande Giacomo di non temere questo salto, perché non è affatto, o non vuole essere (e non deve essere) un fatuo e confortevole cedimento all’illusione. Dal punto di vista dell’Equilibrio, o meglio dell’Azione Equilibratrice, occorre superare non soltanto l’illusione beota dell’ottimismo, ma anche la piagnucolosa illusione pessimistica. Illusori sono tanto il trionfalismo quanto la frustrazione. Il nero occorre al bianco, e viceversa, giacché tutto è dinamismo e non si può marciare in una sola direzione. I “cieli” che io elogio nel Don Chisciotte, da te amichevolmente inserito nel blog in un articolo successivo, sono quelli dell’Equilibrio e non quelli dell’Illusione. Ed hai ragione nel commentare che è l’Umanesimo (non l’Antropocentrismo) il mio orizzonte di pensiero. Un Umanesimo tuttavia che rivendica a sé l’esigenza dello Spirito e dell’incorruttibilità dell’Essere, o del Divino. Non se ne separa, non se ne tira fuori. Spero vivamente che queste mie intenzioni emergano e ti sono immensamente grato per la possibilità che mi offri di comunicare il mio pensiero. Una fortissima stretta di mano.
Carissimo Franco, intanto non posso che ribadire (credo a nome di tutti i visitatori del blog) il piacere grande di leggere le tue riflessioni a fronte di quelle che, tempo addietro, hai chiamato le mie stimolanti provocazioni. La ragione più intrinseca di tale piacere, per quanto mi riguarda, sta comunque nel ravvisare, nelle tue meditazioni e poesie, quel pensiero poetante (espressione come ben sappiamo dovuta ad Heidegger) che un insigne critico dei nostri tempi, Antonio Prete, coglie alla grande nei versi leopardiani (banalizzati da Croce e, in qualche modo, dallo stesso Francesco De Sanctis). Così dicendo, potrebbe sembrare che io la prenda alla larga o, peggio, che cerchi rifugio nell’accademismo, nel risponderti. Pertanto, per non essere frainteso, mi limiterò a rappresentare il punto di vista che ha indotto me, inguaribilmente poeta e letterato, a far ricorso alla seconda lassa del Canto notturno leopardiano (appresa la notizia dell’operazione militare “Odissea all’alba”). Più esteta che filosofo, ho percepito irridente e oltraggioso lo splendore di una luna sì, più vicina alla terra, ma, in quale serata? una serata fin troppo inquietante, per le notizie ascoltate. Tuttavia, il Leopardi del Canto notturno, è anche il poeta che si sta preparando a lasciare per sempre Recanati, e a prendere nel contempo congedo -a livello letterario- dalla melodiosa forma petrarchesca (ormai come una gabbia metrica per un artista-filosofo che si accinge a vedere un pò di mondo, a frequentare e polemizzare anche acremente con gli umani in presa diretta, fino alla morte). Quanto detto, per giungere al cuore della mia provocazione, sul piano strettamente letterario ma anche, credo, con valenze umane non secondarie. Voglio dire, in sostanza, che soltanto leggendo e amando l’ ultimo Leopardi, ossia quello post-recanatese, possiamo farci davvero un’ idea del dono prezioso che il poeta ci ha fatto con la Ginestra: laddove, dantesco e non più petrarchesco, scabro nel lessico, materico alla Burri ante litteram, orchestra una sinfonia poetica che laicamente ci richiama alla solidarietà; bandendo le guerre sempre fraticide, di fronte alla potenza spaventosa della Natura (vedi, al presente, la catastrofe giapponese). “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”; Giovanni, III,19: questi i versetti posti in epigrafe alla Ginestra da Leopardi; ma, appunto, un’epigrafe da cui prendere le mosse per un “viaggio” che punta dritto, da parte del poeta, umanisticamente, al cuore dell’uomo, per ricordargli di porsi al di là dello sterile egoismo. Questo il testamento poetico di chi, precedentemente, all’età di ventuno anni, aveva rinnovato la poesia italiana coi suoi “sovrumani/ silenzi”. Insomma, carissimo Franco, se c’è un Leopardi che io mi tengo veramente stretto senza idolatrarlo, è proprio quello “sporco”, “contaminato” della Ginestra; un testo che, ricordandomi i limiti umani, mi spinge a tentare di versare una piccola goccia di mansuetudine nei nostri avvelenati rapporti quotidiani. Così, nel silenzio della mia casa, io rifletto: attraverso il linguaggio non servile, non più cortigiano dell’ultimo, formidabile Leopardi; che parla direttamente al mio cuore come un fratello ben più saggio di me, capace quasi di entusiasmarsi nel dire le ragioni profonde di una necessaria solidarietà fra gli esseri umani, oltre ogni seducente pessimismo. Una calorosa stretta di mano anche da parte mia, caro amico.